A generare tensione nella pagina di Joan Didion (1934) è lo sforzo continuo per captare l’inafferrabile: le frasi si ripetono martellanti, i periodi si troncano sul nascere, e poi rinascono alterati in un dettaglio rilevante, il romanzo diventa il blocchetto di appunti del cronista affidato al lettore perché sia lui a mettervi ordine.
Una rivisitazione dello stile di Hemingway e del minimalismo di Carver dunque. L’autrice è considerata una della voci più significative delle letteratura statunitense e Democracy, uscito nel 1984 e riproposto ora da e/o, è secondo molti la sua opera più riuscita: la lunga love story, lì raccontata, diInez Victor, moglie di un politico in corsa per le presidenziali, e Jack Lovett, probabile trafficante e spia, è di fatto il manifesto del New Journalism, di cui la Didion è stata esponente di rilievo. Tale movimento, nato negli Stati Uniti a cavallo degli anni’70, partiva dalla convinzione che il giornalista dovesse sostituire l’oggettività con un intreccio di punti di vista diversi, compreso il suo: ogni attore degli accadimenti ha, o per meglio dire aspira, a una sua verità, a un’altra ancora invece aspira chi per mestiere deve farsene cronista, trovare il punto in cui le une si rifrangono nell’altra è l’unica fedeltà al vero disponibile. Democracy condensa gli eventi cruciali di un ventennio di storia americana, dagli esperimenti nucleari degli anni 50’ fino alla disfatta in Vietnam, preferendo alla narrazione dettagliata la sottolineatura di un filo conduttore: lo svaporare graduale di un’identità nella pura immagine. Si allude, si sonda, più che analizzare: la scrittrice si mette in gioco fra i personaggi come testimone in grado di esternare più dubbi che certezze. In rilievo, persino nella passione fra Inez e Victor, è l’omissione, il non detto, ma è la lacuna da colmare a rappresentare la chiave del libro, in quanto è solo così che emerge lo smarrimento della coscienza, l’impotenza di individui e Paesi di andare oltre il se stesso in una fotografia o nelle agenzie di stampa. Non a caso l’incipit del libro è nel 1975, l’anno della disfatta vietnamita: la crisi della democrazia provocata dalla politica imperialistica coincide con lo sfaldamento dell’esistenza apparentemente felice di Inez.
Non si parla mai di latitanza di un’etica in Democracy ma è la concretizzazione della sua morte che il libro racconta, privando personaggi ed autore della capacità introspettiva là dove la memoria di ciò che si è stati è «un carico» da «gettare a mare» per vivere una vita.