Lo scriba a caccia della vista perduta
Autore: Nicolò Menniti-Ippolito
Testata: Il mattino di Padova
Data: 14 gennaio 2015
è una Venezia diversa, meno conosciuta, la protagonista di "La pietra per gli occhi. Venetia 1106 d.C.", il romanzo di Roberto Tiraboschi (Edizioni e/o, 282, 18 euro) che è da oggi in libreria. Racconta un tempo in cui campi e campielli erano ancora di erba e fango, in cui le piscine erano luoghi di raccolta del sale, in cui il sestiere di San Polo era ancora Luprio e il palazzo ducale in via di edificazione. L'Arsenale stava appena nascendo, mentre ad Amurianum, che non era ancora Murano, cominciavano ad essere trasferite le fornaci per lavorare il vetro.
Roberto Tiraboschi, sceneggiatore di alcuni dei film di Soldini, autore di quattro romanzi che non disdegnano l'atmosfera noir, prova, da veneziano d'adozione a raccontare la laguna come quasi mai è stata raccontata. La potenza veneziana è ancora in nuce, nelle Mercerie abbondano i mercanti e le merci, ma vengono vendute in strutture fatiscenti, fatte di legno e paglia, mentre il Doge fatica a tenere a bada gli scontri tra Castellani e Nicolotti. Questo lo sfondo storico, sempre molto be documentato da Tiraboschi, ma storica, in qualche modo, è anche la vicenda narrata, sia pur con alcune libertà di interpretazione. Il tema è il vetro, una delle grandi manifatture veneziane, ed in particolare la lotta che si scatena per arrivare a produrre un vetro puro, completamente trasparente, esente da quelle impurità che caratterizzavano i prodotti tedeschi e di altre località italiane. Un segreto fondamentale per i vetrai veneziani, custodito con grande cura, ma anche con determinazione feroce, perché i veneziani uccidevano pur di non farlo trapelare.
Insieme al vetro ci sono gli occhiali, le pietre per gli occhi che compaiono nel titolo del romanzo di Tiraboschi. Come è noto la storia della nascita degli occhiali nel medioevo è controversa. La prima attestazione visiva è in un dipinto trecentesco trevigiano di Tommaso da Modena, ma è indubbio che a quell'epoca gli occhiali erano giù in uso da alcuni decenni, visto che i Capitolari delle arti veneziane distinguono già nel duecento gli occhiali dalle lenti d'ingrandimento.
Ma quanti anni prima erano stati inventati? Ed erano proprio un'invenzione veneziana? Nessuno lo sa, anche se la priorità veneziana è probabile, ed è in questo spazio vuoto che si inserisce Tiraboschi, costruendo un giallo medievale, in cui realtà e finzione si fondano tra loro.
Protagonista della storia è un amanuense ospitato a San Giorgio, che sta perdendo la vista e si trova al centro di una lotta che vede protagonisti vetrai, cristallieri, monaci e mercanti di libro. Certo, tutto questo suona familiare, da Umberto Eco in poi il giallo di ambientazione medievale gioca con costanza su questi elementi, ma proprio questo è il divertimento di Tiraboschi: mettere in campo elementi narrativi tradizionali, ma provare a mescolarli tra loro, a rigenerarli facendoli collidere. Per questo Tiraboschi carica i suoi personaggi, gli regala tratti specifici e anomali, sempre però ancorandosi ad una base storica credibile. E, in effetti, questa Venezia ancora in costruzione, caotica e sfasata, ancora priva di un disegno definitivo diventa veramente un luogo di avventura, una sorta di terra incognita in cui tutto è ancora possibile. E la trasparenza del vetro, la ricerca di una visione di nuovo nitida sono il controcanto rispetto ad un mondo in cui la chiarezza è ancora tutta da costruire, ma che nei suoi tratti barbari conserva una vitalità a suo modo affascinante.