Mistica della guerra
Autore: Elisabetta Rasy
Testata: Il Sole 24 ore
Data: 5 gennaio 2015
Negli scrittori francesi oggi pìù conosciuti, come Michel Houellebecq o Emmanuel Carrère, circola, quasi fosse un elemento chimico sostanziale della scrittura contemporanea, il potere della violenza. Anche per Jéròme Ferrari parigino, origine corsa, anno di nascita 1968, vincitore nel 2012 del Premio Goncourt con Il sermone sulla caduta di Roma. la violenza è un'inevitabile figura dell'immaginario, ma più che a stimoli contemporanei è per lui ancorata al mondo della tradizione. Di una certa tradizione: da un lato, quella violenza sorda e arcaica della terra della sua famiglia, una Corsica vagamente leggendaria con ì suoi paesi di morti e di silenzi e di noia che sconfina nell'abbandono; dall'altro, la guerra, ma come nella scia di storie francesi d'altri tempi, più simile alle guerre di conquista coloniale o alle imprese della Legione Straniera che non ai conflitti mutevoli, imprevedibili e disperatamente endemici dei nostri giorni.
Nel nuovo romanzo ora pubblicato in italiano nella buona traduzione di Alberto Bracci Testasecca, Un dio un animale, il protagonista fa il militare a Gibuti, che è stata l'ultima delle colonie francesi in terra d'Africa a essere smantellata ed è tuttora sede della Legione Straniera (lo stesso scrittore risiede in qualità di insegnante a Abu Dhabi, altra sede dello speciale corpo armato d'Oltralpe). Dice il sergente che istruisce il giovane protagonista e narratore della storia: «Niente è eterno se non la guerra e la battaglia che l'anima umana è obbligata a condurre contro se stessa per rinascere dal proprio fuoco». Perché quella di cui parla Ferrari è anche una guerra mistica, che si espande ovunque, dalla caccia al cinghiale e dalle fucilate ai merli nell'uliveto a un meeting di manager, il cui motto è «life is competition» come ai checkpoint del Medio Oriente in fiamme, e ovunque si scatena con invincibile furia, nel cimitero del paese e in quello del cuore, durante un rapporto sessuale o in un'esecuzione brutale e sommaria che riduce in pezzi quello che pochi attimi prima era stato un corpo umano.
Un dio, un animale è un lungo monologo che il protagonista rivolge a se stesso, includendo nello spazio del suo discorso le vite che ha toccato: quella di Jean-Do, l'amico sbandato e allegro che dal paese lui stesso ha portato a morire su un lontano e sicuramente estraneo e dunque incongruo e assurdo campo di battaglia quella di Magali, immagine del primo adolescenziale amore, come tale destinato a essere eterno e irraggiungibile, e quelle dei vivi e dei morti confusi insieme che, al paese corso, rappresentano l'origine, temibile più che rimpianta (come accadeva, anche più marcatamente, nel Sermone sulla caduta di Roma). Ferrari è uno di quei romanzieri che sono mossi, piuttosto che dal gioco caleidoscopico del mondo, da una singola, invincibile ossessione, che non esita a mettere in parole esplicite. Nel Sermone {il riferimento è alle omelie di Sant'Agostino) lo fa nelle prime pagine, dove leggiamo che «un mondo era scomparso senza che alcun mondo nuovo venisse a rimpiazzarlo».
Qui è lo stesso titolo a chiarire l'atmosfera mentale del racconto: un dio e un animale è un'espressione del dialogo tra Aurore Clément e Martin Sheen in Apocalipse Now Redux, la versione del film del 2001 con i quarantasette minuti in più aggiunti dal regista Coppola all'edizione del '79. Non c'è incompatibilità tra un dio e un animale, in ognuno il sublime e l'abietto - come accade anche nel flusso narrativo, nel lessico e nello stile di Ferrari- si toccano e si congiungono. Così come non c'è incompatibilità tra il presente e l'eterno, entrambi rispecchiati nello specchio di ogni singola esistenza umana ed entrambi accomunati dal segno della perdita: «lascia l'eternità dov'è. L'unico modo per preservarla è non avvicinarla, perché è nella perdita e nell'allontanamento che ci si tiene il più vicino possibile a ciò che si è perduto e per sempre inaccessibile».
È singolare e originale il modo in cui Jéròme Ferrati raccontando mescola le sue carte. Il realismo e una certa sentenziosità biblica, la tradizione e l'attualità, il passato, più che altro mitico o leggendario, e il presente: nel romanzo alla realtà della droga e degli spacciatori da discoteca si affianca il ricordo dell'indocina e dell'Algeria, all'ascesi dei mistici orientali la brutalità degli odierni terroristi, così come al mondo della guerra si oppone il mondo di internet, dove «cercano tutti disperatamente di esistere» e invece, con l'esibizione delle loro opinioni, commenti, fotografie, non costruiscono che «un tempio vuoto dedicato al culto di un fantasma». Non che gli eroi, o eroi mancati, di Ferrarì abbiano invece il culto della violenza, al contrario sono fedeli privati del culto di ogni possibile culto, inghiottito dal tempo come nel Sermone sulla caduta di Roma la cattedrale da cui predicava Sant'Agostino. Ma in internet tutto è troppo vicino, laddove ciò che si deve coltivare è l'allontanamento, perché le cose importanti non possono «essere colte che a una certa distanza». Ed è così intenso il suo impasto narrativo di opposte violenze e differenti perdite che una delle scene di maggior ferocia del romanzo non si svolge in un campo di battaglia ma su un letto anonimo in cui si consuma un casuale amplesso fra colleghi dopo una giornata di lavoro, dove il corpo esplode come in un attentato ai danni dell'anima.