“È con un certo timore che mi appresto a scrivere la storia della mia vita. Avverto una sorta di esitazione superstiziosa nell’alzare il velo che ricopre la mia infanzia come una foschia dorata. Scrivere una autobiografia è un compito difficile. Sono nata il 27 giugno del 1880 a Tuscumbia, un paesino nel nord dell’Alabama”.
Helen era la primogenita di Arthur H. Keller, capitano delle forze armate degli Stati confederati e di Kate Adams, sua seconda moglie ”molto più giovane di lui”. La famiglia viveva in una casa “completamente ricoperta di vite, rose rampicanti e caprifoglio. Il portico era nascosto da una coltre di rose gialle e salsapariglia”. La tenuta era chiamata “Ivy green”, perché “la casa, gli alberi circostanti e le siepi erano ricoperti d’edera inglese. Quel giardino d’altri tempi è stato il paradiso della mia infanzia”.
Purtroppo, a soli diciannove mesi la piccola Helen era stata colpita da una terribile malattia, non ancora ben identificata, che l’aveva portata alla cecità e alla sordità totali. I primi mesi furono difficili e confusi per la bambina, che doveva abituarsi e capire la sua nuova condizione e adattarvisi. Helen, molto intelligente e intuitiva, presto sentì il bisogno di comunicare con gli altri con dei segni, cercava in tutti i modi di esprimersi per fare capire ciò di cui sentiva di avere bisogno.
Il giardino era il suo microcosmo dove “facendomi guidare dall’olfatto trovavo le prime violette e i gigli, che gioia perdermi fra i fiori, girovagare felice da un posto all’altro”.
Un altro territorio da esplorare era la cucina dove la piccola impastava panini, aiutava a fare il gelato, macinare il caffè e dare da mangiare alle galline e ai tacchini.
Gli anni passavano mentre Helen cresceva e con lei il desiderio di esprimersi. I fallimenti che derivavano “dall’impossibilità di farmi capire erano seguiti da eccessi di rabbia”. La frustrazione era tanta e l’amore e la sollecitudine dei genitori non erano sufficienti per garantire un futuro adeguato e soddisfacente alla bambina che chiedeva di poter comunicare e “vedere” il mondo.
“Mi sono abituata al silenzio e all’oscurità che mi circondava, dimenticando quanto fosse diverso il prima, fino a quando non arrivò lei, la mia insegnante, che liberò il mio spirito”.
Nel marzo del 1887, “il giorno che ricordo come il più importante della mia vita” pochi giorni prima che Helen compisse sette anni, Annie Mansfield Sullivan giunse dai Keller e da quel momento una nuova percezione avrebbe illuminato la vita della bambina. Annie, una delle primissime insegnanti capaci di affrontare alunni ciechi e sordi alla Perkins School for the Blind di Watertown nel Massachusetts, insegnava compitando nel palmo della mano della bambina le lettere, linguaggio che la piccola apprendeva in modo veloce e vorace. Il passo successivo era stato imparare a leggere e spesso le lezioni si svolgevano all’aperto.
La piccola alunna non avrebbe mai dimenticato l’estrema sensibilità e abilità della sua insegnante, le due donne rimasero, infatti, amiche per tutta la vita. Ha dell’incredibile quello che questa donna riuscì a fare e ottenere nella sua straordinaria vita, insegnante e scrittrice, attivista e suffragetta, avvocato, nonostante la grave menomazione. La sua esistenza dimostra che con la volontà e l’impegno si può raggiungere tutto anche in condizione di disagio.
Nel libro, dal quale è stato tratto un bellissimo film “Anna dei miracoli” (1962) di Arthur Penn con protagoniste nel ruolo dell’insegnante Anne Bancroft e in quello di Helen Patty Duke entrambe vincitrici dell’Oscar, con schiettezza e lucidità e senza mai cadere nel pietismo e vittimismo narra la vita di Helen Keller fino all’ammissione al Radcliffe College, sezione femminile dell’università di Harvard nel Massachusetts.
Il volume, pubblicato per la prima volta nel 1903, in Italia fu editato nel 1907 per iniziativa della Tipografia Domenicana. In seguito ristampato da vari editori, dopo circa trent’anni di assenza il romanzo è stato rieditato nella collana “Gli intramontabili” delle edizioni e/o con una nuova traduzione a cura di Maddalena Gentili.
“Se abbiamo visto almeno una volta, la luce e quello che ci ha mostrato, ci appartengono”.
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