Lia Levi e la stagione buia da non dimenticare
Autore: Teresa Romano
Testata: Nuovo quotidiano di Puglia
Data: 28 novembre 2014
Caduta del fascismo, il 25 luglio 1943. Negli italiani nasce la speranza che la guerra stia per finire, negli ebrei anche quella che vengano revocate le leggi razziali promulgate nel 1938 da Mussolini. Corrado ha 15 anni, è ebreo, vive a Roma e in quei giorni la sua speranza è quella di poter passare, alla fine dell’ estate, dalla scuola ebraica al liceo Visconti. Anche Leandro ha 15 anni, ma ariano e di buona famiglia. Tra i due nasce una strana e complessa amicizia, che si sviluppa tra il carattere ribelle e impaziente del primo, nell’attesa spasmodica di un qualcosa che tarderà ad arrivare, e l’ insoddisfazione del secondo che spesso si identifica nell’ amico e talvolta desidera persino di essere ebreo come lui.
È questo il filo conduttore del romanzo “Il braccialetto”, il nuovo libro che l’autrice Lia Levi presenta nel Salento in una serie di incontri (alle 9.30 e alle 17 sarà all’Istituto “Falcone” di Copertino, e alle 19, nel Teatro comunale di Novoli). Un filo conduttore che si dipana nell’arco di quaranta giorni che seguono quel 25 luglio, sullo sfondo di una Roma devastata dal conflitto, dall’ incertezza e dall’odio, e delle famiglie dei due protagonisti, specularmente diverse ma a volte, tra le righe, anche complementari. E il braccialetto del titolo, un braccialetto d’ oro che apparteneva alla madre di Corrado e rappresentava la storia passata e benestante della sua famiglia, diventa il terzo protagonista del racconto, quando il ragazzo scoprirà che i suoi non lo posseggono più, avendolo ceduto prima di doverlo consegnare ai tedeschi (che chiesero 50 chili d’oro in 36 ore agli ebrei di Roma in cambio di una improbabile salvezza, al cui posto sarebbe arrivata la deportazione).
Tutto questo racconta Lia Levi, trattenendo il lettore in un clima di tensione, attesa e incertezza in cui la speranza assume gradualmente i toni della tragedia. Un racconto che vuol essere memoria, come sempre nelle opere della scrittrice (piemontese, vive a Roma e per trent’anni ha diretto il mensile ebraico Shalom), perché anche a distanza di settant’ anni dai quei giorni non si perda il senso dell’enormità di un dramma che segnò per sempre la storia dei popoli.
«La forma del romanzo è importante spiega Lia Levi perché tutte le vicende storiche vengono filtrate attraverso i personaggi e nel lettore scatta l’ identificazione. Così è più facile viverle, ci si sente calati nelle storie individuali, nei sentimenti, nelle emozioni. Come se davvero si fosse protagonisti di quelle vicende. E l’effetto è molto diverso rispetto al leggere di quegli avvenimenti su un libro di storia, dove restano distanti da noi».
A proposito delle leggi razziali, una nota della storica Anna Foa in calce al suo libro ricorda che il Vaticano disse “aboliamole le leggi razziali, ma non tutte”. Sono state mai abolite del tutto?
«Non tutte e sicuramente non subito. Alcune sono state abolite solo negli anni Settanta. E qualcuna è rimasta fino a qualche mese fa, quando si è scoperto che una normativa ancora in vigore impediva alle società anonime di ingegneri di lavorare per imprenditori privati. Era una legge razziale promulgata nel 1939 con lo scopo di impedire agli ebrei di nascondersi dentro a queste società».
E dal punto di vista culturale, invece, cosa è rimasto di quelle leggi razziali?
«È rimasta la cosa peggiore: la sottovalutazione. Gli italiani hanno voluto sempre assolversi, attraverso la presa di distanza dall’ orrore dello sterminio che non è considerato un fatto italiano, bensì l'effetto della malvagità tedesca. Invece le leggi razziali italiane sono state spesso molto più gravi di quelle tedesche e hanno contribuito in maniera considerevole allo sterminio degli ebrei. Ma molta gente questo non lo sa e sottovaluta quel che è accaduto, quando non lo nega. Ecco perché non bisogna smettere di ricordare quale sia invece la verità».