«Storia della bambina perduta», ultima parte della tetralogia di Elena Ferrante, chiude il cerchio di un affresco di un Paese che ha fallito tutti gli appuntamenti del Novecento
Sta tutto in quel participio, perduta, che minaccia il lettore già dal titolo, il senso del quarto e ultimo volume della tetralogia «L’amica geniale» di Elena Ferrante.Storia della bambina perduta – edizioni e/o, pagine 451, € 19,50 – attesissimo da un pubblico osannante e fedele, a larga maggioranza femminile, è uscito alla fine di ottobre e già scala le classifiche. E insieme alle recensioni sul libro, spesso al loro interno, ha ripreso vigore la questione sull’identità dell’autrice, che non è stata svelata – sottolineano i commentatori e i critici più curiosi – neanche nell’occasione del completamento dell’opera, neanche a fronte del grande successo all’estero, in America soprattutto, delle traduzioni dei primi tre libri.
La questione nulla aggiunge (o toglie) al valore dell’opera e come lettrice devo riconoscere anche a quest’ultimo romanzo una grande qualità letteraria. Elena Ferrante – da donna e da napoletana mi piace pensarla donna e napoletana – vi racconta l’ultima parte (Maturità eVecchiaia) della vita di Elena e Lila, che hanno cominciato la loro amicizia giocando con due bambole di pezza in un fetido cortile e hanno poi preso strade diverse ma basate sull’unico straordinario capitale di entrambe: l’intelligenza.
Anche questo quarto libro ha un ritmo serrato e avvincente, anche in questo libro le vicende delle protagoniste hanno sullo sfondo o direttamente intrecciati tutti gli ismi delle vicende italiane (qui il racconto comincia nel 1976): il terrorismo, il femminismo, il socialismo… insieme a tanti fatti, tante vicende e tanti personaggi che vanno, vengono e ritornano. Ma c’è soprattutto, forse ancora più che nei tre libri precedenti, la straordinaria, complicata, prepotente amicizia delle due protagoniste. Questo rapporto, fatto di testa e di cuore, di avvicinamenti e allontanamenti, di solidarietà e crudeltà, è il vero grande protagonista di tutta la saga, l’elemento che più ha presa sul lettore.
È chiaro che la Ferrante ha concepito, già dal primo capitolo del primo volume, di raccontarci la storia dell’Italia dal dopoguerra ai giorni nostri, partendo da uno squallido Rione napoletano (un microcosmo che sovrasta e condiziona le vite delle due protagoniste e di molti degli altri personaggi che gli ruotano intorno) e poi espandendosi a Pisa, Firenze, Milano, Genova, luoghi nei quali Elena – quella che fugge, nel titolo del terzo libro –costruisce la sua emancipazione e il suo successo.
Ma in tutti questi luoghi e in tutti i periodi descritti emerge sempre da parte di Elena l’impossibilità a prescindere da Lila, anche quando da Lila si allontana o da lei si difende, non mettendola a parte della sua vita. Perché Lila è imprescindibile, è magnetica, è unica, è il vero capolavoro della Ferrante. È uno di quei personaggi che scavano nella testa dei lettori, vi si accomodano dando fastidio e rimanendo impressi per la loro durezza diamantina, a volte per il loro autolesionismo, più spesso per il dolore che la vita gli riserva.
Uno dei dolori più grandi è quello che deriva dalla perdita di una bambina, e il libro in tutta la sua seconda parte ne da conto. Ma Storia della bambina perduta racconta in realtà diffusamente della sommatoria di perdite che si producono nelle vite delle persone. Sono perdite individuali (un amore, un lutto, un lavoro) o perdite generali (l’atroce episodio del terremoto del 1980 che conferma Napoli come città irredimibile). In ogni caso sono perdite inevitabili, pare ci dica l’autrice, forse solo alla scrittura possiamo chiedere di porvi rimedio. È infatti questo il compito che la Ferrante affida ad Elena nelle primissime pagine de L’amica geniale, di raccontare «ogni dettaglio della nostra storia, tutto ciò che mi è rimasto in mente».