Le origini di Amara Lakhous sono algerine, ma ormai può essere considerato a tutti gli effetti uno scrittore italiano. Padroneggia la lingua, infatti, con perizia, e una certa letterarietà che dà alla sua prosa un sapore insieme nuovo e antico, contemporaneo nel senso più lato possibile del termine, perché sembra quasi scorrere a braccetto col tempo stesso, lievitare, come la pasta del pane messa a riposare sotto a uno straccio, come qualcosa di vivo.
Inoltre, l’ambientazione delle sue storie è italiana, Roma, nei suoi quartieri più multietnici (l’integrazione è altro tema caro), l’Esquilino, la zona di Viale Marconi, e Torino, la prima capitale d’Italia, prima di Firenze e ancor prima di Roma, con le sue strade che si incrociano ad angolo retto (il cardo e il decumano di ciceroniana memoria) e che si ritrovano oggi come oggi nell’Urbe soprattutto proprio in quei quartieri come il già citato Esquilino, la zona di Piazza Vittorio, con i suoi portici che certo non son nati per la neve, oppure Prati, quelli, insomma, in cui più si vede in modo concreto la realizzazione del progetto di piemontesizzazione sabauda.
Lakhous, comunque, è una continua conferma: La zingarata della verginella di Via Ormea, edito come d’abitudine da e/o (e come d’abitudine va sottolineata la rara bellezza ed efficacia della copertina), è un romanzo che fa proprio piacere leggere. Perché? Perché è scritto bene. Torna protagonista Enzo Laganà, il giornalista di cronaca nera più stropicciato che si ricordi lungo il Po, la Dora e non solo, che questa volta dovrà dissipare la foschia intorno a un caso di presunto stupro. Una quindicenne dice di essere stata violentata. Da due rom. Giudizi e pregiudizi, misteri e rivelazioni. Reati e, per l’appunto, zingarate. A voler cercare il lemma sul vocabolario, si scopre la definizione di uno scherzo mordace: ma è davvero solo questo? E chi è veramente Drabarimos? Un’autentica zingara? E chi sono i veri delinquenti? Pirandello versione 2.0, verrebbe da dire…
Sembra un vero funerale. Mancano solo il carro funebre e gli addetti al trasporto vestiti di nero. Ecco cosa mi sono detto a casa dei genitori della ragazzina, a via Ormea. Bellezza mi fa strada con autorità, attraversando una fila di persone che bloccano sia le scale che l’entrata dell’appartamento al primo piano. Ma chi sono tutti questi? Che ci fanno qui? Forse parenti, amici o semplicemente curiosi che vogliono un’anticipazione dello spettacolo che si sta preparando sui media, tv in primis. Mi trovo catapultato al centro del salone di casa. Mi fanno sedere accanto alla nonna della ragazzina, che piange e ripete ossessivamente la stessa nenia: «Hanno distrutto il fiore della mia vita! Santa Vergine Maria, madre del nostro Gesù, perché non hai protetto la mia bambina?». Chiedo di Virginia e mi dicono che è chiusa nella sua stanza fra le braccia della madre. Si avvicina un tizio sulla quarantina con le lacrime agli occhi. Bellezza si sposta per fargli posto. È il padre della vittima. Ci conosciamo. Si chiama Mauro Ferreri. Abbiamo frequentato le stesse scuole a San Salvario. Avrà un paio d’anni più di me. Per essere il padre di un’adolescente non c’è dubbio che si è sposato presto.
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