"Subito dopo il suo funerale mi sentii come quando all’improvviso si mette a piovere forte, ti guardi intorno e non trovi un posto dove ripararti."(Elena Ferrante)Il dolore è un paese dove piove di continuo. Ebbene sì, sto leggendo il quarto (e temo ultimo) libro dell’Amica geniale. Si intitola "Storia della bambina perduta", ed è, come tutti gli altri, firmato dalla misteriosa Elena Ferrante per edizioni e/o. Una saga contemporanea che, nel frattempo, sta conquistando, ed è davvero un prodigio, i solitamente indifferenti (ai libri italiani) lettori di lingua inglese: pagine e pagine di recensioni entusiaste sul Guardian, il New York Times, il Financial Times… #ferrantefever, è l’hashtag. FerranteFever anche per me. Lo leggo con furia, questo ultimo libro, e poi lo metto da parte; voglio finirlo e non voglio. E sono grata, perché raramente i libri scatenano tali emozioni, volere e non volere, amare e abbandonare, un po’ come l’amicizia arruffata e cupa e luminosa di Lila ed Elena, nel romanzo. Come l’amore e il disamore per un uomo che qui, in questo quarto libro, straborda ad ogni pagina. Ma finora la parte che più mi ha colpito è il corpo a corpo con la madre. Madre da cui la protagonista, Elena, fugge: non vuole essere come lei, una madre del rione, una "vaiassa" napoletana; non vuole essere una donna sciatta, prigioniera del marito e dei figli, prigioniera della casa e del quartiere. Che pagine violente, dure, bellissime, quando Elena scopre il tradimento dell’uomo che ama, e vorrebbe distruggere tutto, urlare, picchiarlo, stracciarsi le vesti; scopre dentro di sé le donne del rione, le donne della sua città, le donne prima di lei, quelle da cui è fuggita. Ma è fuggita davvero? Sì, lo vediamo, la accompagniamo nell’Italia che cambia, quella del femminismo e degli anni Settanta, nell’Italia dei sogni e della rivoluzione. E poi la mamma di Elena muore: è la pagina del suo funerale, i funerali in cui piove sempre anche se c’è il sole, in cui ci si sente più soli, al freddo, davanti alla morte. Eppure Elena ha con sé un’eredità preziosa: no, non la selvaggeria "da femmina" da cui fugge. Ma un braccialetto della madre e un viatico, una frase che la madre le sussurra quasi di sbieco in ospedale, " tu sei tu, mi fido", questa frase empowering, questa fiducia nella figlia nonostante o forse proprio per i litigi, "questa idea mi lavorò dentro e finì per aiutarmi". Ed è questa in fondo l’eredità più preziosa che ci possono lasciare le madri: la fiducia, l’autostima. Nonostante la pioggia esistenziale. A proposito: la frase di commento non è mia, ma è di Simon Van Booy, un mio vecchio Buongiorno del 27 gennaio 2010, tratto dal libro "L’amore arriva d’inverno" (Ponte alle Grazie). L’amore, la pioggia, il dolore, i libri, il futuro.