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Elena Ferrante fine della saga: romanzo sulla città delle false promesse

Autore: Pier Luigi Razzano
Testata: Repubblica Napoli
Data: 5 novembre 2014

“Storia della bambina perduta” è il quarto e ultimo racconto sulla serie della “amica geniale”

CHI è Elena Ferrante? La domanda ritorna in questi giorni dopo l’uscita di “Storia della bambina perduta” (Edizioni E/O), quarto, attesissimo e conclusivo volume della saga di Lenù, Lila, bambine divenute donne, segnate e sempre appassionate, simbiotiche anche nella loro distanza, i due volti della sterminata folla di personaggi che la Ferrante ramifica nello stratificato rilievo di Napoli che esce dal buio della guerra, si rivernicia durante gli anni del boom lasciandosi strozzare con cieca allegria dalla speculazione edilizia, rientra in una penombra plumbea ingoiata dalle lotte degli anni Settanta, non sarà più la stessa dopo la crepa incisa su corpi e memorie dal terremoto, e giunge fino alla sperata, inseguita rinascita con successiva delusione («era solo cipria della modernità spruzzata a casaccio») degli anni bassoliniani di inizio Novanta. L’epopea appassionante iniziata nel 2011 con “L’amica geniale” solo in Italia ha venduto più di 150 mila copie, e ha anche invaso il mercato estero. La Neapolitan Novel ha sedotto l’America che per il mistero della Ferrante ha subito evocato i numi della letteratura discreta e per nulla incline alla manifestazione di sé, Pynchon e Salinger, superando le 50 mila copie. Numeri elevati e critiche entusiaste sul “New York Times”, approfondimenti sul patinato “Vogue”, un lungo profilo di James Wood sul “New Yorker” esaltano la Ferrante. Un’attenzione rivolta anche dal biografo di David Foster Wallace, D. T. Max, che proprio sul “New Yorker” dello scorso settembre rilevava che «dell’intensità emotiva e radicale dell’amicizia tra Elena e Lila non riesco a ricordare una controparte nella letteratura americana e inglese», per poi subito chiedersi, anche lui, chi potesse essere la Ferrante. E innescare il balletto delle varie e fantasiose ipotesi che in Italia dura da anni. Prima Goffredo Fofi, secondo altri Mario Martone, regista del romanzo d’esordio della Ferrante, “L’amore molesto”, poi con più insistenza Domenico Starnone, così stanco di sentirsi sdoppiato che ha scacciato con astuzia l’alter ego scrivendo la “Autobiografia erotica di Aristide Gambia”, fino ad Anita Raja, moglie di Starnone, traduttrice di Christa Wolf. Elena Ferrante invece resta girata di spalle. Si nasconde, non si rivela: come le figure che campeggiano in ognuna delle copertine della tetralogia. Nessun volto, però corpi reali di cui scorgiamo l’ampio movimento. La sottrazione della Ferrante lascia campo a vite tese verso Napoli, permette che si muovano come in una cattedrale di minuziosi dettagli. Manifesta loro e non se stessa svelando il volto della città che ha i tratti incoscienti come la sposa bambina che sarà Lila negli anni laurini mentre avviene la metamorfosi di botteghe in negozi per assecondare la sete di benessere. Narrazione che attraversa più di mezzo secolo in cui Napoli si osserva a distanza. Una città che ciclicamente appare giovane, insegue illusioni, non mantiene promesse, respira affaticata quando le speranze soggiacciono sotto l’arroganza, però sempre pronta a cercare nuova aria.