Solo pochi mesi fa il gruppo romano della SIL proponeva il suo X seminario estivo dedicato al tema dell’ambivalenza. Tra i testi in discussione figurava il terzo volume del ciclo de L’amica geniale di Elena Ferrante, Storia di chi fugge e di chi resta. Molti sono stati gli elementi capaci di suscitare interesse verso il romanzo di Ferrante e altrettanti se ne sono presentati durante il confronto in presenza relativamente all’intera produzione della scrittrice. Ciò per dire che se in qualche modo poteva chiarirsi la felice intuizione intorno a una scrittura dell’ambivalenza, il quarto e ultimo volume Storia della bambina perduta conferma e moltiplica i tratti in cui «l’infinito gioco dell’et et» si mostra.
Le personagge e i personaggi arrivano finalmente alla maturità e si avviano alla vecchiaia non prima di affacciarsi cariche e carichi di promesse fragili nello scenario complesso della fine degli anni Settanta. Ferrante prosegue in questo modo l’attraversamento del novecento italiano per arrivare fino ai giorni nostri. Ritroviamo così la coppia di amiche Lenù e Lila che solo all’altezza di questo ultimo libro chiariscono definitivamente il loro profilo, in che modo cioè hanno stabilito di immergersi nel divenire-donne. Come lo hanno scelto e percorso insieme. Come si sono separate e come hanno cercato la propria felicità. La Storia della bambina perduta mostra che l’ambivalenza non può che essere una doppia forza, in questo caso quella delle relazioni tra donne che si rincorrono e che assumono la pratica – mai semplice – dello specchiarsi l’una nell’altra.
Così capita a Lenù e a Lila che vivono nuovamente a stretto contatto dopo che la prima torna a Napoli in seguito a una scelta d’amore che le fa troncare il proprio matrimonio con Pietro Airota e le fa vivere la passione di sempre con Nino Sarratore. Con quest’ultimo avrà una figlia, Imma, la terza dopo Dede ed Elsa. Ma a ben guardare, nonostante sia Nino l’effettiva ragione del suo ritorno a Napoli, ciò che è significativo è il percorso di trasformazione, ritrovata fusione e separazione dalla sua amica di sempre, Lila – ago dei pensieri e delle azioni che altrimenti rimarrebbero a metà. In questa rappresentazione di se stessa Lenuccia si autorizza alla contraddizione e ne fa la trama del suo stare nel mondo, mentre Lila continua a illuminarsi nella sua differenza. È una differenza che non avrebbe senso se non si fosse in due, si dileguerebbe forse nella assoluta estraneità a se stesse sembrando mimetica forma di un’amicalità abitudinaria e senza scambio.
I capovolgimenti storici, gli anni della modernizzazione così come la divaricazione tra conflitto sociale e insufficienza della legge, sono per Ferrante il controcanto di una strada più lunga. Quella delle due protagoniste nella maturità prima e nella vecchiaia poi, quando i pezzi stentano a combaciare ma non per questo sono meno preziosi da elaborare e interrogare. Soprattutto quando, come precisa Lenù «finalmente era chiaro che ciò che ero io non era lei, e viceversa. La sua autorità non mi era più necessaria, avevo la mia. Mi sentii forte, non più vittima delle mie origini, capace di dominarle, di dar loro una forma, di riscattarle per me, per Lila, per chiunque. Ciò che prima mi tirava in basso adesso era la materia per andare più in alto».
In questo scenario non manca la solita precisione di Ferrante verso tipi antropologici piuttosto paradigmatici: come Nino, il compagno emotivamente analfabeta che nella lotta radicale a qualunque sopruso agogna solo un posto di potere e farebbe di tutto pur di ottenerlo. È come un lento album fotografico di incontri familiari in cui si scorge la storia controversa e implosiva della forma partito, la comoda preferenza dell’istituzione per sedare e rinnegare conflitti e movimenti. E la strategia – tra seduzione e risarcimento fuori tempo massimo – di molti uomini che hanno costruito fortune intere sulle spalle delle (loro) donne, delle loro relazioni e dei loro saperi per poi dire come farà Nino: Lenù, continua a occuparti di letteratura che di politica non hai mai capito niente.
C’è anche il posto per l’auto-moderazione. Il dubbio tocca anche Lenuccia – spaesata fra trasformazione e fiducia nella legge – e passa per la tagliola dello Stato, della repressione che miete vittime di esistenze minute. Come quelle di Lenù e Lila e di chi ha partecipato a collettivi e lotte operaie e che presto o tardi arrivano a osservare il ribaltamento di un sogno di libertà. Succede a Enzo, sbattuto in galera per due anni senza nessuna ragione evidente se non un’ambigua connivenza a non si sa bene a cosa. Viene seminata la gramigna del sospetto: la ditta informatica di Enzo e Lila cade in rovina e viene svenduta; il giudizio della comunità, che si affida illusoriamente alla ragione dei giudici, è la prima a decretarne la colpevolezza. Ma in questa confusione che ha svolte e tappe storiche precise, Ferrante accumula segni di sfascio e splendore di cui Napoli è punto nevralgico e significativo. C’è la diffusione dell’eroina così come dell’AIDS – quest’ultimo solo accennato. Ma c’è anche il passaggio sul disastro di Cernobyl e quello dell’11 settembre. Napoli nel frattempo si presta per segnalare che «il sogno di progresso senza limiti è in realtà un incubo pieno di ferocia e di morte».
Le avevamo lasciate al limitare di decisioni difficili, Lenù affermata scrittrice con una vita a Firenze e frequentazioni in giro per l’Italia che le avevano consentito letture e incontri importanti. Proprio quella Lenù, che nel corso degli anni aveva dovuto lottare con il senso della propria inadeguatezza, del sentirsi costantemente un bluff, con il passaggio difficile a un’altra classe sociale, che dentro di sé portava i segni di un’inferiorizzazione corretta nel tempo da studio e autodisciplina delle proprie risorse. E poi Lila, la sua amica geniale che aveva scelto di non allontanarsi dal rione napoletano in cui erano cresciute e da cui entrambe provenivano, lei che sfidava un senso di materialità più aderente alla propria condizione perché «la tela che tessi di giorno si disfa di notte». Queste due figure magnifiche messe al mondo dalla mente di Elena Ferrante incarnano anche nel quarto volume la necessità di dirsi nel modo di un’autocoscienza. O meglio, è quella di Lenù che racconta se stessa in relazione a Lila. Sta forse qui la difficoltà di comprendere due complessità che restano comunque parziali, una raccontata in prima persona e l’altra vista e interpretata. Non è solo Carla Lonzi e il suo soggetto imprevisto che tornano nell’incedere di Ferrante insieme all’ipotesi che autenticità e verità non sempre coincidano, sottotraccia ci sono altre e numerose letture del femminismo italiano. In particolare quello della differenza; non può dunque sfuggire il soffermarsi su alcune parole come desiderio, invenzionee autorità intrecciate alla modalità del partire da sé che si dipana nel suo significato profondo di trovare qualcosa di impensato. E non sarà quindi casuale la conversazione tra Lenù e Mariarosa quando quest’ultima alla fine teorizza «“ricorrendo a molte dotte citazioni” che una donna senza amore per la sua matrice è persa» o che bisogna stabilire sempre un rapporto con un’altra donna, «specchiarsi l’una nell’altra». Eppure, per sua stessa ammissione, le scrittrici su cui Ferrante si è soffermata di più sono Elsa Morante e Virginia Woolf. Certo diverse fra loro ma con dei punti di vicinanza evidenti in tema di libertà femminile.
Chi è la bambina perduta, dunque? Arrivate a un certo punto della storia si potrà credere che Ferrante abbia voluto attribuire il titolo alla scomparsa misteriosa della figlia piccola di Lila, una bambina appunto che durante un mercato rionale si smarrisce senza che i numerosi tentativi di ricerca la possano riportare a casa. Si potrà pensare – come la stessa Lenù immagina – che c’è consonanza tra i nomi della bimba scomparsa, Tina, e della sua bambola che moltissimi anni prima viene lanciata nel vuoto e perduta proprio da Lila. Ma la parabola della bambina perduta probabilmente esula da un accadimento specifico. Chi si perde è una collettività che fino a quel momento aveva saputo dire lo stupore, il cambiamento. Chi si perde sono soprattutto altre bambine, e la scrittura di Ferrante depista e allarga ragioni e presagi proprio facendo riferimento all’episodio delle due bambole infantili di Lenù e Lila che da piccole si erano spinte fin dentro lo scantinato del temibile Don Achille pur di riacciuffarle. Ci erano andate inutilmente perché in quel momento non le avevano ritrovate ma ciò che risulterà importante è che da quel momento l’abitudine a incontrarsi è diventata un’alleanza. Un’alleanza che le ha spinte nel buio e dal buio le ha ricacciate fuori, impaurite e al contempo più forti. Imperfette e mai vinte del tutto.
In età adulta, apprendiamo il dolore di Lila per la perdita della figlia Tina ma dilatato oscuramente fino quasi a disfarsi per l’impossibilità di Lenù a restituirlo come fosse suo. Così il senso di perdita si stende e diventa atmosfera rarefatta che permea l’ultima parte del romanzo con il rischio di non trovare più orientamento.
La domanda tuttavia rimane. Perché mai dovrebbero esserci bambine perdute? È la stessa Lenù a non sentirsi mai a casa e a scoprirsi madre sufficientemente buona ma incompetente senza l’aiuto di Lila. È la stessa Lila che supplisce quella competenza pur continuando a smarginarsi ma consentendo alla sua amica di espandersi. Tra smarginatura ed espansione del Sé, le due bambine incontrate nel primo volume de L’amica geniale fanno qui i conti con le proprie infanzie nella scommessa della propria maternità. Il corpo a corpo con la madre di ciascuna, il confronto con una lingua materna che assume il segno inverso dello stesso zoppicare di Immacolata, la madre di Lenù, e che sghemba ma inesorabile consente di inaugurare i primi passi e dettare la nominazione del mondo. I perimetri di sé e della propria sessualità distinguono e mettono ulteriormente a repentaglio la propria immaginata collocazione. Non solo sono perdute le bambine, sono rintracciate proprio qui come tremendamente vulnerabili e per questo quasi insostenibili nella propria ossessione alla felicità. Una ricerca incolpevole e bambina in un corpo di donna che diventa casualmente madre e che non riesce a esserlo neppure di se stessa.
Ma se per Lenù, il mondo può tornare a posto, Lila si domanda Quale posto? Si tratta della frantumazione dopo il terremoto del 23 novembre 1980? Quando non c’è neppure più il corpo a soccorrere il proprio baricentro e la smarginatura diviene pieno scioglimento dei confini. L’incubo per le forme che non coincidono e che possono mutare verso una mostruosa estraneità fa il resto. La frantumazione del terremoto è oltre la smarginatura. Non c’è più il vuoto capace di organizzare il desiderio ma una vendetta esatta del più cupo immaginario che diventa realtà.
È importante che la personaggia alla quale sente di somigliare Ferrante sia Mrs Ramsey, protagonista di Al faro. Perché proprio intorno alla smarginatura di Lila, descritta perfettamente durante il terremoto, c’è più di un punto di contatto che probabilmente lega Ferrante a ciò che Angela Putino scrive riguardo Virginia Woolf e il suo To the lighthouse: «il tempo viene fermato dalla trepida fatica di due donne e la casa risale, piegata dalla vaga e ordinaria intermittenza del mondo che ora le circonda a distanza. Ma ogni cosa continua a ricordare le linee traverse, il repentino zigzagare, i perturbanti buchi aperti dove prima c’era il consueto, il familiare, il volto di ciò che si conosce. Era come se onde veloci, colme, perse nelle loro creste di schiuma avessero invaso l’abitudine per perderla in un rischio. Il tremore è qui». Lo stesso tremore capace di prendere il corpo e funestarlo.
Lenù e Lila sono così amiche e guerriere. Combattono per costruire un senso interno che il fuori connota di violenza. Eppure sanno perdersi nel mondo, all’occorrenza cancellando qualunque traccia del loro passaggio. Ecco perché Ferrante dopo averle tenute per mano a lungo decide di lasciarle andare. Perché anche lei si è saputa specchiare fino in fondo con le sue personagge, ha fatto in modo che fossero sponda utile e credibile. Che sia l’estrema prova del partire da sé? Se è così, il ciclo de L’amica geniale è riuscito sapientemente a rappresentarcela.