La metafora «democratica» del videogame per rappresentare gli yes-man dell'«Olimpo di Putin»
Autore: Valentina Parisi
Testata: Alias
Data: 2 novembre 2014
La metafora «democratica» del videogame per rappresentare gli yes-men dell’«Olimpo di Putin»
Sulla mappa suburbana di Mosca, a sud delle devastazioni perpetrate ai danni della foresta di Chimki e a ovest dell’inarrestabile, disordinato espandersi di una megalopoli che conta ormai dodici milioni di abitanti, fluttua da sempre un atollo di inopinata prosperità che, da qualche anno a questa parte, risponde al nome tanto evocativo quanto ufficioso di Rublëvka. Là nei boschi dove Ivan il Terribile si recava alla caccia con il falcone, nobili e zar avrebbero fatto erigere le proprie residenze estive, conferendo alla strada che conduceva al monastero Savino-Storozevskij un’aura incontestabile di prestigio sociale che sarebbe diventata appannaggio della nomenklatura sovietica. Non sorprende dunque che l’ultima metamorfosi di questo lembo di terra lungo una ventina di chilometri e incastrato tra ben tre cimiteri volga nella direzione di quel che il giornalista Valerij Panjuskin ha definito «lo zoo dei milionari». Un mondo a parte punteggiato da «gabbie» magniloquenti le cui bizzarre architetture vanno dallo chalet alpino al castello della Loira, passando ovviamente per riproduzioni in scala del Palazzo d’Inverno. Meno scontato è cercare di descrivere – come fa lo stesso Panjuskin – questo universo per antonomasia chiuso affidandosi alla metafora «democratica» del videogame. In L’Olimpo di Putin Manuale del giocatore (traduzione fluida e briosa di Claudia Zonghetti, e/o, pp. 224, € 18,00) ), la stilizzazione sulla forma extraletteraria dell’handbook consente all’autore di tenersi provvidenzialmente al riparo dal pettegolezzo, non solo attirando il lettore nel Gioco della Rublëvka (peccato che nel titolo italiano si perda l’assonanza tra Rublëvka e roulette, ruletka in russo), ma dandogli anche l’impressione quantomai fallace di poterne comprendere i meccanismi. Perché, trattandosi di un gioco spietatamente al rialzo, dove ne va del potere, e quindi in definitiva della sopravvivenza stessa dei partecipanti, le regole sono fatte in realtà per essere violate e riscritte, almeno ai gradini più elevati della competizione. Anzi, l’eventualità che un giocatore possa «ascendere di livello» è addirittura direttamente proporzionale alla sua capacità di imporre nuove norme di comportamento ai suoi avversari più ligi e timorosi. Altrettanto inutile sarebbe cercare di intravedere una logica qualsiasi in quelle leggi cui tutti, pur a malincuore, si sottomettono. Non c’è infatti alcun motivo apparente perché debba essere un solo ufficiale della scorta di Putin a controllare personalmente la strada che dalla Rublëvka porta a Mosca, tenendola bloccata al passaggio del corteo presidenziale ogni mattina per quaranta minuti invece che per i cinque che sarebbero sufficienti, se si coordinasse con i colleghi. Senonché, così facendo, il responsabile della sicurezza in questione evita di condividere con altri le proprie responsabilità e pertanto consolida la propria posizione in questo «gioco» altamente gerarchizzato. Di conseguenza, è pressoché fatale che la vita degli abitanti della Rublëvka si trasformi in una sorta d’inferno; non a caso, le pagine più spassose del libro sono quelle in cui l’autore si sofferma sull’immobilità mattutina del «maschio rublëvkiano» di medio cabotaggio, costretto a consumare interminabili colazioni con la moglie e i figli in attesa che i politici raggiungano la capitale e il traffico finalmente si sblocchi. Una stasi forzata che ricorda – con tutta probabilità non a caso – l’elaborato risveglio di Komjaga all’inizio di una Giornata di un opricnik di Vladimir Sorokin. In un certo senso, L’Olimpo di Putin può essere considerato come la logica prosecuzione di Dodici che hanno detto no (pubblicato anch’esso da e/o), malgrado il tema sembri all’apparenza opposto. Se infatti nel suo libro precedente Panjuskin ripercorreva le recenti incarnazioni della figura del dissidente, inteso nella valenza etimologica di colui la cui voce risuona fatalmente fuori dal coro («nesoglasnyj»), qui l’attenzione si sposta su yes-men di ogni risma le cui fortune sono legate a doppio filo alla stabilità del sistema putiniano (per quanto anche qui non manchino le eccezioni, come dimostra il caso dell’oppositrice made in Rublëvka Ksenija Sobcak). Sorretto da uno stile invariabilmente brillante, Panjuskin non resiste alla tentazione di collocare la propria controfigura di giornalista fintamente ingenuo sullo sfondo di oligarchi impegnati «a dar veste giuridica alla mimetizzazione del proprio carico fiscale» o a inventarsi fondazioni caritatevoli per ripulire il proprio denaro. Finché – raggiunto il livello massimo concesso a un profano come lui – non è costretto a dichiarare «game over»: «da qui in avanti non so più come il Gioco funzioni».