Si dice che se si ferma lo Zapruder film fra i frame 208 e 211, è possibile intravedere una fugace Elena Ferrante poco distante dalla macchina di Kennedy; si dice anche che il Tank Man dei fatti di Pechino del giugno 1989 si sia dato alla macchia, e scriva ora romanzi sotto falso nome in Italia; i più scafati invece sono convinti che dietro ad Elena Ferrante si nasconda Thomas Pynchon, dietro al quale si cela Tommaso Pincio, dietro al quale si apre una stanza con cento scimmie che scrivono unicamente tramite i suggerimenti del sistema QuickType di iOS 8.
Insomma quella di Elena Ferrante è una figura magnetica e affascinante, il cui talento narrativo — che negli ultimi anni si è mostrato a intervallo regolare — si lega ad un'aura di mistero nostrano del quale i lettori non hanno che frantumi (o Frantumaglia). Perché la Ferrante, autrice de I giorni dell'abbandono, La figlia oscura e della Storia di chi fugge e di chi resta, ha un penchant verso l'anonimato pynchoniano e misteroso, così che mostrandosi ben poco alimenta sospetti d'inesistenza.
Il che rende ancora più interessante il recente successo della Ferrante oltre Italia, e in particolare in America, dove per una volta non sono gli scrittori italiani ad andare in referente pellegrinaggio narrativo tentandosi poi Wallace e Delillo di quest'italietta che guarda al domani (cit.), ma sono i lettori di quelle parti a riscoprire che esiste grande narrativa anche fuori dai confini. A riprova di tutto ciò è la bella e interessante conversazione pubblicata ieri sul New Yorker fra Ann Goldstein — traduttrice inglese della Ferrante — e il buon vecchio D.T. Max — firma del giornale e fan della Ferrante —, sul "potere misterioso di Elena Ferrante".
Fa una strana impressione sentir letta Elena Ferrante da voci che ne martoriano il nome, eppure che leggono con tanta trascinazione brani dall'opera di questa cripto-scrittrice. E dunque la storia di Lila ed Elena rimane vivida anche dopo il passaggio all'inglese, e se Napoli sembra distante anni luce da New York, non lo sono le sue voci, che rimangono "startling and incredibly vivid", e il cui "linguaggio intenso e disadorno al tempo stesso colpisce per la sua potenza." "The violence of the language is beautifully controlled" — ripete D.T. Max — e descrive la realtà in un certo senso liminale di personaggi la cui vita è sempre a "a ridosso della violenza".
E dunque devo ammettere che della Ferrante non ho mai letto molto, e mi rendo conto soltanto ora è stata un gran sciocchezza non farlo. Ben vengano dunque gli sguardi da fuori, che spesso riescono a gettare nuova luce su cose che, trovandosi così vicine, si fa fatica a mettere a fuoco per conto proprio. Buona lettura.