Mary McCarthy definì questo romanzo, nel 1984, «l’elaborazione di un puzzle: abbiamo iniziato con un po’ di cielo (quelle albe rosa); e poi, senza fretta, inseriamo accuratamente un altro pezzo, e il dolce scatto della chiusura di cartone si fa sentire – senza forzare». Conosciamo i pezzi, li vediamo sul tavolo, ma fin dall’inizio c’è suspense, in questa storia, pubblicata quando Joan Didion era giornalista (iniziò la carriera a Vogue), sceneggiatrice, scrittrice che non aveva ancora incontrato il vero dolore (i suoi memoir, Blue Nights e L’anno del pensiero magico, racconteranno, molti anni dopo, la perdita del marito, della figlia, la vita con la morte addosso). Ma, anche in Democracy, la vita cade a pezzi, elegantemente, con la precisione delle parole e di intere frasi che volteggiano nel vuoto, dentro la storia americana degli anni Settanta e dentro la storia di Inez Victor, affascinante moglie di un senatore, ma forse innamorata di un trafficante d’armi, fra Honolulu, Washington, New York, il Sudest asiatico. Joan Didion si rivolge ai lettori, dice loro: «Avrete già capito che Inez e Jack se ne andarono insieme da Honolulu. Potrei dirvi di Inez, quando alzò gli occhi e lo vide. Potrei dirvi di quel ballo. Potrei dirvi di quando tutto crolla e sembra che non abbia, in fondo, alcuna importanza».