Carissimi, non c'è stato alcun errore: la rubrica, Fingerbook, trasloca dal venerdì al mercoledì. Nulla è cambiato, siamo sempre io e Michela.
Prima di inoltrarci nella recensione e nella ricetta di oggi, vi avviso che l'attività del blog riprenderà lunedì. Da domani fino a domenica sarò con Letteratura rinnovabile al Festival della comunicazione di Camogli. Vi terrò aggiornati.
L'hummus di ceci – pietanza comune al bacino del Mediterraneo –, che Michela ha preparato, introduce perfettamente al libro in questione, Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano di Eric-Emmanuel Schmitt ed edito da e/o.
È un racconto più che un romanzo e, forse, per questo motivo le debolezze della storia trovano una giustificazione: alcuni passaggi risultano chiusi frettolosamente tanto da non farmi cogliere certe sfumature. Ecco, perché preferisco il film omonimo di François Dupeyron al libro. Comunque, è una lettura di un'ora, non di più.
In una Parigi degli anni Cinquanta lontana dallo charme e dalla ricercatezza, in poche pagine si snocciola l'amicizia tra Mosè-Momo e Monsieur Ibrahimi. È il ragazzo a raccontarci la vicenda, il quale mantiene semplicità di parole anche in età adulta.
Mosè non sorride mai. Vive con il padre incapace di dimostrare affetto, trincerato tra i libri della sua biblioteca e i ricordi dell'altro figlio, Popol. I pochi discorsi sono relativi all'economia domestica in costante penuria: il ragazzo gestisce il denaro e ogni tanto si concede qualche piccolo furto. Anche l'arabo che ha la bottega all'angolo della via ne è vittima.
Monsieur Ibrahim ha l'accento speziato, è l'unico “arabo” in una via ebrea, tra Rue Bleue e Rue de Paradis. In realtà, è sufi e arabo vuol dire bottega aperta dalle 8 alle 24 tutti i giorni della settimana e la sua saggezza deriva dal suo personalissimo Corano.
E proprio quando Mosè-Momo viene abbandonato per la seconda volta – dalla madre, alla nascita e dal padre, nell'adolescenza – Ibrahim lo accoglie nella sua casa e nella sua cultura. I due decidono di raggiungere la Turchia. «Viaggeremo, Momo. E quest'estate andremo insieme nella Mezzaluna d'Oro, ti farò vedere il mare, l'unico mare, il mare da dove vengo io».
Il viaggio intrapreso dai protagonisti è un percorso fisico e di crescita: attraverso il primo si compie il secondo. Per l'anziano è il viaggio del ritorno alle origini della sua storia. Mosè-Momo ha già raggiunto inconsapevolmente la maturità e la conoscenza di una nuova terra, lo aiuterà a perdonare.
Narrata come fosse una fiaba, lo sguardo si sposta sui temi centrali: l'attenzione verso il prossimo, verso una cultura differente dalla propria. Non vorrei enfatizzare troppo questo libro, ma credo che sia un bell'esempio di convivenza pacifica in un tempo in cui questi termini sono svuotati del loro significato reale. Messaggio rafforzato dal bel saggio di Goffredo Fofi, La città degli incroci, che inquadra in modo chiaro il vivere oggi in una metropoli multietnica come Parigi.