Ci sono molti modi per raccontare una guerra, e alcuni sono ormai così profondamente radicati nell'immaginario collettivo globale da costituire strumenti interpretativi metaforici adatti a descrivere qualunque tipo di guerra. In fondo, anche la guerra in sé e per sé è un classico, nel senso calviniano del termine: vale a dire, un fenomeno che non finisce mai di dire ciò che ha da dire, e – malgrado i secoli, l'affinamento dei mezzi con cui viene combattuta, le motivazioni di cui ogni volta sceglie di rivestirsi – lo dice sempre negli stessi modi. Così, ogni guerra potrà sempre schiantare la propria propaganda supereroistica e le proprie mitologie insensatamente agiografiche contro il crudo realismo di testi come Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque o Addio alle armi di Hemingway; o scontrarsi, sospinta dai propri afflati pseudo-ideologici, con la comicità paradossale, grottesca e decostruttiva di Comma 22 di Heller, o di Mattatoio n. 5 di Vonnegut.
Tutti nomi stranieri, al solito. Ma in Italia non siamo proprio capaci di fare niente, che dobbiamo sempre rivolgerci all'estero per capire meglio le cose? Mi spiego meglio: abbiamo ovviamente, nella nostra letteratura, testi che hanno saputo raccontare la Grande Guerra con la profondità di osservazione, la crudezza e il realismo, per dire, diUn anno sull'altopiano di Lussu. O dei Giorni di guerra di Giovanni Comisso, o, più recentemente, La pazzia di Dio di Luigi De Pascalis (di cui abbiamo parlato nella prima puntata di #LibrinTrincea). Ma si tratta di testi che, pur nella loro grandezza, restano legati al contingente, in modo che il romanzo di Lussu, ad esempio, perfetto come strumento analitico per la Prima guerra mondiale, non funziona altrettanto bene per la Seconda. Da cui la mia domanda di partenza: se dovessimo citare un testo italiano sulla Grande Guerra che valga come chiave interpretativa per qualsiasi guerra, cosa estrarremmo dal cilindro?
Fino a qualche mese fa, avrei risposto con muto imbarazzo. Adesso posso dire La paura, di Federico De Roberto, il primo racconto dei quattro scelti dalle edizioni e/o per la raccolta derobertiana pubblicata quest'anno, in occasione del Centenario.
La trama è scarna e aspra come la natura delle montagne: una mattina di agosto, l'inerzia logorante di una trincea di osservazione in Valgrebbana è rotta dalla ripresa degli spari provenienti dalle linee nemiche. È proprio il momento del cambio turno al posto di vedetta, e il tenente Alfani, per rispettare la consegna di non lasciarlo mai sguarnito, è costretto a inviare fuori dai camminamenti, uno dopo l'altro, i propri soldati nel tentativo di raggiungere la postazione; e quelli, uno alla volta, muoiono sotto i colpi di un cecchino silenzioso, invisibile, implacabile. Una minaccia impossibile da contrastare come da evitare, poiché la disobbedienza agli ordini è diserzione: i soldati si trovano così costretti a scegliere tra la morte come necessità di servizio, o come condanna disciplinare. Da cui la paura: una paura nera, che fiacca le ossa e priva della ragione di fronte all'insensatezza del tutto.
E Alfani lo conosceva anch'egli il brivido tremendo dinanzi al pericolo certo, presente, inevitabile. Finché la minaccia è imprecisata, nello scoppio d'una granata che non si vede arrivare, in una raffica di mitragliatrice o in una scarica di fucileria inaspettata, che possono e non possono colpire, il coraggio riesce ancora facile; ma se la morte è acquattata, vigile, pronta a balzare e a ghermire; se bisogna andarle incontro fissandola negli occhi, senza difesa, allora i capelli si drizzano, la gola si strozza, gli occhi si velano, le gambe si piegano, le vene si vuotano, tutte le fibre tremano, tutta la vita sfugge; allora il coraggio è lo sforzo sovrumano di vincere la paura; allora la volontà deve irrigidirsi, deve tendersi come una corda, come la corda del beccaio che trascina la vittima al macello.
La paura di De Roberto è quella che prova il soldato di fronte a un deserto dei Tartari fino allora muto e tedioso, in cui all'improvviso si manifesta il nemico tanto atteso: un nemico che continua a essere invisibile, diventando però d'un colpo letale. Ed è la paura della scelta insensata tra due diversi tipi di morte altrettanto ingiustificati, con i soldati che cadono come birilli nella consapevolezza di essere nient'altro che carne da macello sfilante in ordinata sequenza. Una veste narrativa che arricchisce il concetto di "inutile strage", coniato da Benedetto XV per condannare la guerra fratricida, di una potenza simbolica devastante nella sua scheletrica semplicità. Fino al crescendo finale: e qui vi consiglio di non leggere l'introduzione di Antonio Di Grado prima di aver letto il racconto, perché c'è uno spoiler grande come una casa.
Ma il fatalismo delle morti irragionevoli è solo uno dei modi con cui De Roberto racconta l'esperienza del conflitto; gli altri tre racconti ne sviluppano altri di tutt'altra matrice, e qui entra in gioco il secondo elemento di sorpresa (almeno per me) contenuto nella raccolta. Perché mai avrei pensato, conoscendo pochissimo De Roberto, che dall'autore de I Viceré mi sarei potuto aspettare l'ironia – tragica, ma pur sempre ironia – su cui si fonda la narrazione de Il rifugio; o la parodia divertentissima delle agiografie belliche de La retata, con l'ufficiale di vettovagliamento che cattura da solo quarantanove soldati austriaci ridotti a stecchetto incantandoli con i miraggi dell'abbondanza culinaria del fronte italiano; o il grottesco senso di straniamento, anch'esso a modo suo più che ironico, in cui si trova a incappare il protagonista de L'ultimo voto, che, presentatosi a casa di una contessa per consegnarle le ultime parole d'amore del marito eroicamente caduto, scopre che la donna, fuori da ogni ideale, è una gretta avida stronza che subito ne approfitta per sposarsi con un imboscato.
Nessuna stonatura, nell'affiancare tra loro registri così diversi nel racconto di un unico tema. Come ho detto, ci sono molti modi per raccontare una guerra. Tanto più che quelli scelti da De Roberto, pur nella diversità di toni e intenti, in fondo puntano tutti quanti in un'unica direzione: la guerra è assurda, e gli eventi – individuali o collettivi, piccoli o grandi, tragici o ironici – che ad essa si relazionano non possono che produrre situazioni ugualmente assurde. A partire dalla principale, quella relativa alla semplice "scenografia" del fronte: uomini così piccoli gettati a difendere postazioni tanto gigantesche, inospitali, prevaricanti. Da cui l'importanza, nei quattro racconti, della componente naturalistica delle descrizioni, che ci viene sbattuta in faccia fin dall'incipit de La paura:
Nell'orrore della guerra, l'orrore della natura: la desolazione della Valgrebbana, le ferree scaglie del Montemolon, le cuti delle due Grise, la forca del Palalto e del Palbasso, i precipizii della Fòlpola: un paese fantastico, uno scenario da Sabba romantico, la porta dell'Inferno.
Oppure l'assurdità dell'unità nazionale, fieramente urlata e propalata dalla propaganda bellica e smentita dalla realtà quotidiana delle trincee, in cui uomini di ogni regione si esprimono ostinatamente ognuno nel proprio dialetto (tranne gli ufficiali, che parlano italiano) in una Babele di differenze linguistiche e culturali che costituisce il vero "carattere nazionale" della Guerra Italiana. E il caso più riuscito è proprio il linguaggio del protagonista deLa retata, a cui io, mentre leggevo le sue avventure in romanesco, ho appioppato naturalmente la faccia di Alberto Sordi.
O ancora l'assurdità, anch'essa tutta propagandistica, delle mogli in ambasce che attendono il ritorno a casa del marito dal fronte; salvo in quei casi in cui, come la contessa de L'ultimo voto, non abbiano già pronte tutte le pratiche per la liquidazione della pensione di guerra, e il letto pronto a ospitare qualcun altro che sappia mettere al primo posto le giuste priorità.
Insomma, cos'è stata per me la raccolta di De Roberto messa insieme da e/o? Una grande sorpresa: la scoperta di un racconto di rara potenza che può stare, senza nessun timore reverenziale, al fianco di quelli che ho citato all'inizio, e di un autore che ha saputo cogliere in modo davvero incisivo il cuore della questione: la guerra è assurda e terribile, e gli Italiani sono un popolo, non so se di poeti santi e navigatori, ma senz'altro di eroi e di cazzari. E forse è proprio per questo che quella guerra, alla fine, l'abbiamo vinta noi.