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Valerio Nardoni Da Capelli blu e Valigie Rosse

Autore: Laura Rossiello
Testata: Livornoprazolo
Data: 14 maggio 2014

Valerio Nardoni è una di quelle persone che non si danno un tono per quello che fanno. Eppure lui, classe 1977 con un curriculum alle spalle di tutto rispetto, potrebbe anche farlo. Almeno non sarebbe così strano, mettiamola così.

Per caso ci è capitato il suo romanzo tra le mani. Capelli blu, un titolo enigmatico come del resto lo è la storia che ti rapisce, ti lega alle pagine come in una sorta di vortice. Insomma, è uno di quei libri che vorresti non finissero mai, ma allo stesso tempo vuoi capire, vuoi sapere come va a finire. Ecco perché lo leggi tutto d’un fiato.

Noi, dopo aver letto Capelli blu (edizioni e/o)  abbiamo cercato Valerio, abbiamo voluto capire, entrare un po’ nella storia, nel perché è nata, cercando anche altri dettagli sulla sua carriera e la sua storia perché, si sa, la vita è sempre legata inevitabilmente a ciò che facciamo ogni giorno. Siamo un po’ quello che facciamo, quello di cui viviamo soprattutto se si tratta di arte nelle sue molte sfumature.

Pensare che da ingegneria è passato all’ideazione di un importante premio di poesia… torna ancora una volta il tema del colore…

Avresti dovuto fare l’ingegnere. Come ti ritrovi immerso nel mondo della letteratura come critico e traduttore? 

Questa è una storia lunga, non so se riuscirò a raccontarla in poche righe, si tratta di uno dei nodi della mia adolescenza, diciamo così. Da una parte, la mia predisposizione per le materie scientifiche, dall’altra la mia indole sempre attratta dall’espressione artistica. O meglio, dall’arte intesa come attività integrale, che dà forma alla propria vita e non come semplice materia di studio o interesse culturale. Fra le tante cose, in quegli anni, ho provato anche a fare il cantante e il pittore: i risultati non sono stati eccellenti, ma il coinvolgimento era lo stesso, qualcosa di totalizzante. Alla base dei miei pregi e dei miei difetti credo ci sia proprio questa dimensione irreale. Quando lasciai ingegneria, appunto, mollai tutto, affittai un piccolissimo atelier e mi dedicai alla pittura (e alla pulizia delle stalle dei cavalli). In famiglia, come si può immaginare, non erano per niente contenti, e devo dire che anche molti amici trovavano avventata la mia scelta e mi davano come “sprecato”, perché a scuola ero sempre stato molto in gamba. I problemi erano più profondi di questi semplici accenni; ad ogni modo, se c’era una materia nella quale ero sempre stato scarso era proprio italiano. Così, dopo un paio d’anni, quando ormai la situazione non era più gestibile, mi venne un’idea diabolica: mi sarei iscritto in una facoltà dove non avrei avuto nessuna possibilità di successo. Lingue e letterature straniere, con scelta delle seguenti lingue: russo e tedesco. Così, non avrei lasciato gli studi per negligenza ma per incapacità e tutti sarebbero stati felici! Poi, tutto è andato diversamente, ma appunto è una storia lunga.

A leggere la tua biografia si perde il conto di quante pubblicazioni hai realizzato. Cosa significa per te scrivere?

Molte delle mie pubblicazioni sono legate alla mia attività di traduttore. La traduzione è per me una palestra quotidiana per la scrittura, ma anche lo studio lo è. Ho scritto e pubblicato molti saggi, che in genere sono proprio il frutto di una ricerca nel tessuto del testo. Quando scrivo, se così si può dire, in un certo senso, anziché tradurre cose di altri, cerco di tradurre in forma di parola le idee che in qualche modo attraversano i miei pensieri e le mie giornate. Cos’è scrivere, però, non lo so di preciso, per me è forse il tentativo costante di cogliere questi significati inespressi eppure determinanti del proprio vivere.

Così arriva anche Capelli blu, tuo primo romanzo dalle tinte un po’ noir , un po’ psicologiche, insomma si può definire un mix di generi che affronta in modo affascinante il tema dell’insicurezza. Come e quando nasce la storia?

La proposta di Capelli blu è quella di tentare una scrittura in un certo senso impressionista: anziché parlare di un disagio generazionale, vuole anche provocare nel lettore quella sensazione di spaesamento, di scontro con l’assurdo. È in questo senso che si appoggia ai generi giallo o noir: precisamente per allontanarsene. A un certo punto, nel 2009, io e la mia compagna ci siamo ritrovati senza più soldi per pagare l’affitto e abbiamo fatto un lungo viaggio, per non deprimerci. Suo padre, per darci una mano, e con la convinzione che lo vendessimo, ci regalò un furgone Volkswagen che non usava più… e con quello siamo rimasti nove mesi in Spagna, con un progetto avventuroso. Abbiamo realizzato 60 videointerviste ad altrettanti poeti spagnoli, chiedendo via via ad ognuno chi poteva essere il successivo. Capelli blu è nato durante questo viaggio senza meta. Forse, al di là dei generi o delle strategie narrative, la ragazza trovata dal protagonista era la mia vita passata. Dovrei forse dire la mia anima, la mia speranza, ma non sono così romantico o spirituale. Era viva, morta? Non si sa…

Dal blu si passa al rosso, precisamente a Valigie Rosse, premio internazionale di poesia Piero Ciampi che hai fondato. Ce ne parli?

Valigie Rosse è una collezione di libri no-profit che ho ideato nel 2010 insieme al pittore Riccardo Bargellini e il poeta Paolo Maccari. Ma se adesso ne parliamo ancora è perché l’organico si è rafforzato, l’idea iniziale si è sviluppata e continua a crescere. Tutto è iniziato in collaborazione con il Premio Ciampi, che ha accolto il nostro progetto come sezione di poesia del premio musicale. Il 2010 era il trentennale della morte di Ciampi, valeva la pena fare un tentativo, anche se fosse durato solo un anno, come celebrazione di quella ricorrenza. Ma la cosa non è finita lì: il nostro catalogo (www.valigierosse.net) adesso è formato di tre collane e 10 libri, con altri tre in preparazione. Possono sembrare pochi rispetto a delle case editrici “normali”, ma nel nostro piccolo stiamo realizzando un lavoro culturale più che dignitoso. Charles Juliet, per esempio, il poeta premiato nel 2012, è stato recentemente insignito del Prix Goncourt de la Poésie, il più importante riconoscimento letterario francese, e non era mai stato tradotto in italiano. La rivista Poesia di Milano – la più diffusa a livello nazionale – dovrebbe dedicargli a breve una copertina.

Cosa rappresenta per te la Spagna?

Non ci avevo mai pensato prima, ti dico la verità, è la prima volta che do questa risposta: la Spagna è per me il luogo del mio primo viaggio da solo. Era il 1998, un interrail, di quelli senza cellulare e ancora con lo walkman. Di spagnolo, naturalmente, non sapevo una parola. Poi la Spagna è diventata – ma in modo del tutto inatteso, per seguire un professore pazzamente stratosferico – pretesto della mia laurea; è diventata poi il luogo dove nascono i poeti o i narratori che traduco; ultimamente, facendo il docente universitario a contratto (subprecario), è diventata persino il luogo di cui racconto a molte persone quali siano le radici, cercando nella letteratura le prove di un mondo che va dalle grotte di Altamira ai graffiti di Los Angeles. È un bel viaggio, ma questo non lo faccio in treno!

In che acque naviga oggi la letteratura o più in generale la cultura italiana?

Dovessimo giudicare la cultura italiana dai libri che si vedono di più (il che sarebbe anche lecito), siamo il paese di Renzi il conquistatore, degli antipasti della Parodi e dei bacioni di Papa Francesco. Questa è la mia risposta da bar, ma a parte le battute mi pare che in generale ci sia ben poca voglia di cercare, di fare qualche piccola scoperta. È un paese diviso per consorterie più o meno potenti. Io mi occupo soprattutto di poesia, e qui vedo un mondo di dilettanti allo sbaraglio, dove la consorteria ti offre quel minimo di protezione per avere uno spessore (ti dice come farti la foto, cosa pensare la domenica, ecc.); questo è molto dannoso perché sotto le bandiere della protezione della cultura in verità si consuma una forte omologazione che – giustamente – allontana ancora di più i lettori; questo allargamento del protagonismo, ad ogni modo, ha dato possibilità a molte persone intelligenti di scoprire la poesia, che senz’altro sapranno liberarsi degli schemi per offrirci qualche bella lettura. Ma siamo sempre lì: queste persone vanno sapute cercare anche là dove proprio non ci aspetteremmo di trovarle. Ne abbiamo voglia? In genere consideriamo cultura quello che ci viene dato, non quello che sappiamo trovare al di là di noi. Peccato.

A trentasette anni qual è il sogno che non hai ancora realizzato?

Mi piacerebbe dirti “tutti”! Invece no, grazie alla crisi economica si può essere dei bamboccioni per un lunghissimo periodo di tempo, ma non per questo il tempo non sarà passato. Quello che io adesso sono, voglio dire, in parte sarà anche frutto di quello che ho sognato di essere. Devo quindi accettare quell’“ancora” della tua domanda. Ci provo così, con spirito positivo! La risposta è: vorrei scrivere un bel libro. E vorrei anche essere sereno. Prima le due cose mi sembravano incompatibili… e forse in questo modo mi sono incasinato la vita a dismisura. Liberarmene: forse questo è il mio nuovo sogno.