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"L'uomo di fiducia" di Herman Melville

Autore: Antonio Scerbo
Testata: Flanerì
Data: 10 aprile 2014

Chiunque abbia nel proprio animo un’attitudine riflessiva, contemplativa, chiunque senta di portar dentro un’idea di bellezza, forse riflesso di una verità preternaturale, guarderà di sicuro alle cose del mondo, e alla cosa in sé, con un certo ossequioso rispetto, e se vogliamo anche con un certo distacco, in realtà – come lo Zarathustra di Nietzsche insegna – piena immersione, e nel suo intimo proverà quella gioia, che è un brivido vecchio quanto l’uomo, impagabilmente sinestetica. La vita sa dunque essere meravigliosa, soprattutto quando capita di imbattersi nelle più pure manifestazioni dell’arte, e particolarmente quando si legge Moby Dick, la punta di diamante del genio di Hermann Melville. Era Melville uomo di mare, era Melville uomo dimorante costantemente nei pressi del senso delle cose: «acqua e meditazione sono sposate per sempre».
Ebbene, è sulle acque del Mississippi che scorrono le pagine de L’uomo di fiducia (E/O, 2014), l’ultimo romanzo di un Melville – e sai la novità… – in stato di grazia, capace di maneggiare gli universali con la stessa facilità con cui un vecchio lupo di mare, nonostante il turbinio dei venti, passeggia pensoso tra la poppa e la prua della nave, figurandosi, a dispetto della lontananza nello spazio e nel tempo, il volto dei suoi cari, sulla terraferma.
In un imprecisato primo di aprile dell’Ottocento, sullo sbuffante Fidèle, uno dei passeggeri inscena una mascherata, vestendo di volta in volta panni diversi, impersonando quindi un’umanità cangiante da portare alle strette su ciò che più, sostengono i saggi, la caratterizza: la materialità delle cose e le categorie dello spirito. Prospettive diverse si affastellano, surcodificate però, e non potrebbe essere altrimenti, dal sempiterno dualismo tra Bene e Male. E in questa lotta manichea l’uomo, sin dalla notte dei tempi, si è ricavato le proprie ragioni: si deve pur sopravvivere, occorre alle volte sopraffare, scrivere con convinzione le tavole della propria legge. E allora un dubbio corroborante si insinua: ci si può forse fidare di un’idea, di una corrente di pensiero, di un qualsivoglia idolo innalzato anche in spregio a Dio, se non si conoscono nella loro quintessenza l’uomo e l’umanità?
Melville non si arrischia in una faticosa genealogia della morale; taglia invece – come del resto lo stesso Mississippi – l’America e lo spirito del suo tempo, declinato in un Cristianesimo e in un Trascendentalismo a loro volta resi misera dottrina. Tra citazioni bibliche ed echi shakespeariani la satira si rivela dunque impietosa, e accompagna con un ghigno di risentimento la tragedia che si diffonde, quella caduta dell’uomo di cui tanto si è detto e di cui tanto ancora si sentirà dire. Perché il Male continua a fare proseliti: la «forza atroce innerbata da una malizia imperscrutabile», incarnatasi in Moby Dick e che del capitano Achab ha occupato e sovraccaricato l’interiorità tutta, si ritrova nell’ingannevole sguardo del confidence-man. L’ottocentesco Melville sa come stupire; attraverso quegli occhi, specchio che deforma, con sempre nuova fiducia ricorda a chi continua a smarrirsi che, e basterebbe semplicemente crederci, il Bene non ha mai smesso di gettare luce in ogni angolo del globo terracqueo, a prescindere dai travestimenti.