Dentro la terra, umida e calda: Tennessee Williams
Autore: Giulio D'Antona
Testata: Linkiesta.it
Data: 27 marzo 2014
Facendo un passo indietro, per guardare Tennessee Williams nella sua interezza. Magari lasciando scivolare via la figura imponente di Marlon Brando in maglietta bianca e voce roca, prima. Ecco, facendo questo passo indietro per tracciare il profilo del drammaturgo, di uno degli autori teatrali più conosciuti e amati nel mondo, ci si accorge di un grosso buco. Una voragine, verrebbe da dire, ma ci arriveremo.
Tennessee Williams era un'uomo di una complessità straordinaria, e dalla straordinaria capacità di portare questa complessità in scena. Ci sono molti modi di liberarsi del proprio bagaglio di incongruenze, di spezzature della normalità, ma c'è un solo modo di tirarselo dietro. Con costanza, forza di volontà e cieca rassegnazione. Williams non era un depresso, ma un paranoico occasionale. Aveva visto declinare la sorella Rose oltre la linea d'orizzonte della pazzia, e l'aveva accompagnata in un viaggio senza ritorno che a conti fatti aveva segnato lui più di lei. «Un maestro della disperazione e del bisogno» si sarebbe auto-definito a un certo punto della sua vita, quando la paura della sorte toccata a Rose aveva smesso di lasciarlo dormire la notte e lo aveva maledetto con un talento che non sembrava durare più di due opere. Sia ben chiaro che l'omosessualità, con l'instabilità di Williams non aveva niente a che vedere. L'orientamento sessuale era una cosa chiara e discreta, per cui «discretamente sarebbe stato che la gente si facesse gli affari propri». L'arrendevolezza degli affetti, forse. Quel mojo che un uomo del sud dovrebbe conoscere molto bene – era nato a Columbus, Mississippi il 26 marzo del 1911 – e che gli aveva fatto scappare dalle mani tutte le relazioni che aveva avuto. L'ultima, la più importante, fu quella che gli regalò il periodo più sereno della sua vita, il periodo in cui scrisse tutte le sue opere di maggior successo. Ma se ne andò con la crudeltà che solo la malattia sa avere, e non tornò più indietro.
Per quanto riguarda il teatro, la storia di Williams – al secolo Thomas Lainer, poi mutato in Tenessee – è tutta lì da vedere. Candles to the Sun è stata la sua prima opera rappresentata, nel 1937, ma senza che raggiungesse un successo tale da fissare il nome dell'autore prima del debutto de Lo zoo di vetro, nel 1944. Poi sono venuti American Blues e Battle of Angels, accolto malamente dalla critica e fortemente contestato dalla morale. Non servirebbe nemmeno scrivere di Un tram che si chiama desiderio, decisamente l'opera più conosciuta di Tennessee Williams e anche quella che probabilmente più di tutte mette in luce gli aspetti più oscuri della psiche del drammaturgo. È fin troppo facile trovare nella pazzia di Blanche un riferimento alla sorella Rose, e nella rabbia muscolare di Stanley lo sforzo di conservazione dei sentimenti che per tutta la vita ha divorato Williams dall'interno. Poi c'è la faccenda di Elia Kazan come primo regista a mettere in scena il dramma, nel 1947 a Broadway, con Marlon Brando e quell'interpretazione che ha impresso per sempre nella storia del teatro e del cinema una tacca, un punto di partenza. C'è anche il fatto che a portare il Italia Un tram sia stato Luchino Visconti, assieme a Franco Zeffirelli, all'Eliseo di Roma nel 1949. C'è che si tratta di un punto nevralgico della drammaturgia americana, qualcosa che a toccarlo fa male ancora adesso e che è tanto radicato nell'immaginario collettivo da vivere in centinaia di citazioni e di rielaborazioni. Più o meno consuete, più o meno legittime. Non ultima la rivisitazione di Woody Allen in Blue Jasmine.
Dopo di che c'è molto poco. Alti e bassi produttivi sempre più accentuati, lunghi periodi di depressione, molte occasioni sprecate. C'è La gatta sul tetto che scotta e Improvvisamente l'estate scorsa. Qualche incursione nel cinema ma senza troppa voglia e senza troppo coraggio. Una crescita professionale sempre precaria, anche se riconosciuta e distinta come si può dire di poche altre carriere. E poi c'è quel grosso buco, quella voragine.
La voragine della prosa non è una cosa da niente. È la mancanza di alcuni tasselli senza i quali non è possibile aspirare a comprendere la complessità di Williams. Per fortuna in questi giorni sono successe almeno due cose che se non ci mettono una pezza ci vanno molto vicine. Durante la sua esistenza, Williams, ha ambito alla scrittura in tutte le sue forme. Dalla drammaturgia ai racconti, dai romanzi alle poesie, arrivando a tessere un intreccio di forme che confluissero in un solo linguaggio e si scatenassero in una voce unitaria. Intonata e piuttosto disperata. Una voce che si è andata a incagliare, per quanto riguarda il mercato Italiano, nelle maglie della traduzione e lì è rimasta, lasciando trapelare molto poco del ragguardevole numero di pubblicazioni che Williams ha dato alle stampe. Nel 1966 usciva per Einaudi una raccolta dal titolo Tutti i racconti e metteva assieme per la prima volta le due antologie più complete e unitarie di storie brevi: One Arm (tradotto poi Apollo monco) e Hard Candy (tradotto poi Caramelle al croccante, vai a capire il perché). Successivamente il nome del drammaturgo era comparso qui e là in pubblicazioni minori o raccolte miste. Nel 1970 un suo racconto dal titolo Un ospite indiscreto, parte di The Knightly and other Stories, è stato tradotto da Luciano Bianciardi per Rizzoli e infine il romanzo Una donna chiamata Moise è comparso nel 1976 per Garzanti. Tutto qui.
La produzione in inglese si perde e si confonde nel vasto mare in tempesta della mente di Williams, nella quale è difficile districarsi quasi quanto è facile perdersi. Quello che è successo in questi giorni e che aiuta a rendere giustizia alla profondità dell'autore è che, per prima cosa, The Strand ha recuperato un racconto inedito, scritto da Williams negli anni '30 e che ha aspettato più di ottant'anni per vedere la luce del sole. Per seconda cosa, e/o ha ripreso in mano One Arm e Hard Candy, le ha riunite, rivisitate, spolverate e restituite agli scaffali in occasione del 103esimo anniversario della nascita del drammaturgo.
Quello che emerge dalle storie de L'innocenza delle caramelle – questo il titolo scelto per la riedizione delle due raccolte – è che di innocenza non ce n'è da nessuna parte e per nessuno. C'è un mondo duro, freddo e rigido, ancora più rigido di quello che in più di trent'anni di altalenante carriera Williams aveva sbattuto in faccia agli spettatori, ancora più ruvido della voce stessa di Brando mentre grida «Stella!» e lascia il suo grido sospeso come monito ai posteri. Quello che fa questo libro, importante già per tutti i motivi descritti sopra, è di regalare una nuova dimensione e una seconda giovinezza a un autore – ma di più, a un uomo – di cui tante volte si è rischiato di perdere le tracce. Che aveva un modo di scrivere e di esprimersi comune a chi ha vissuto un'epoca di silenzio e difficilmente si è scavato un posto al mondo. L'innocenza delle caramelle ha il pregio di restituirci Tennessee Williams, e la sua grandezza insieme a lui.