Una scrittura torrentizia, concitata, tumultuosa come i tempi che racconta Elena Ferrante in Storia di chi fugge e di chi resta - terzo volume del ciclo L'amica geniale (il quarto è annunciato per l'autunno 2014) - tanto da sembrare il meno “letterario” dei volumi usciti finora. Magnifico ed emozionante come un'insolita fiaba d'infanzia il primo, spigoloso e doloroso come un romanzo di difficile formazione il secondo (Storia del nuovo cognome), l'ultimo va, a mio avviso, letto almeno due volte: la prima perché la trama è tale da farti tirare notte, girando le pagine per arrivare al più presto alla fine, nell'urgenza di sapere che cosa accade a quelle due giovani donne, Elena-Lenù e Lina-Lila, che abbiamo conosciuto bambine nel primo volume e poi adolescenti nel secondo. Una seconda, per coglierne tutti i dettagli, le sfumature, i passaggi. Ed è ad una lettura più lenta e attenta che quella sensazione un po' inquietante che ti accompagna nel dipanarsi della storia si definisce meglio e diventa, forse, più chiara.
Perché è in questo terzo volume che il gioco dell'ambivalenza che Ferrante ha adottato come espediente narrativo, mettendo in scena due amiche ugualmente “valenti”, si manifesta all'ennesima potenza. Non tanto e non solo perché le due bambine entrambe intelligenti seppur in modo diverso che crescono in un quartiere popolare alla periferia di Napoli si amano e si odiano, competono e si alleano, si lasciano e si ritrovano per tutta una vita in un gioco di reciproco rispecchiamento che le fa esistere entrambe nelle loro differenze. Ma soprattutto perché si potrebbe anche ipotizzare che siano la stessa persona, lo stesso personaggio.
Uno sdoppiamento narrativo - un espediente, appunto - che sembra nascondere una interrogazione sul sé femminile drammatica e radicale. Come se Ferrante volesse chiedersi e chiederci: cosa poteva accadere, quale poteva essere la sorte di una creatura di sesso femminile nata alla fine della guerra in un “rione” sottoproletario di una città del Mezzogiorno? Le due protagoniste hanno la stessa data di nascita: agosto 1944. Se Elena, narratrice in prima persona, non avesse continuato gli studi poteva aver scelto di sposare un camorrista come è accaduto a Lila? Se non avesse avuto la fortuna di potersene andare da Napoli sarebbe finita a lavorare in fabbrica? Se non avesse sposato un intellettuale, se non avesse scritto un libro, se non…
La storia di Elena è il frutto di una serie di scelte più o meno consapevoli, ma quello che sarebbe invece potuto essere è ancora lì, nella storia di Lila, e viceversa. La scomparsa dell’amica a 66 anni – evento che mette in moto la stesura della quadrilogia - per Elena è come la scomparsa di una parte di sé, un vuoto incolmabile, un lutto con cui non può venire a patti, e che sembra scatenare una sorta di resa dei conti con se stessa, rintracciabile nell’andamento della narrazione, nella scelta stilistica che fa della sua scrittura un rendiconto affannato in un'urgenza incontenibile che scava nella memoria e nei sentimenti con un bisturi affilato, senza badare al sangue. E, dal punto di vista letterario, senza neanche preoccuparsi di compiere un ri-attraversamento apparentemente acritico – puramente descrittivo, sfondo e contesto - di una serie di luoghi comuni: un “certo” '68, una visione riduttiva del femminismo autocoscienziale, una parodia della figura del “terrorista”, o almeno di quella zona grigia tra movimento e lotta armata che molte/i della sua generazione hanno costeggiato.
Ma non è questo, mi pare, ciò che le sta a cuore. Ferrante non fa “cronaca” né dà una interpretazione degli anni Settanta con cui si può – come lettrici, specie se della stessa generazione o giù di lì - essere d'accordo o dissentire: la dimensione pubblica e quella privata sono in ogni caso, e in ugual maniera, riconducibili in primissima istanza a quelle due singole vite, l'una “fuggita” in una dimensione che non le apparterrà mai fino in fondo – l'ambiente intellettuale del marito, le città: Pisa e poi Firenze con le loro l'università, Milano e l'universo delle case editrici, dei critici e delle presentazioni. L'altra “restata” a Napoli, ma non una Napoli qualunque, una città a sua volta bifronte: la periferia, il rione, la fabbrica di insaccati, lo squadrismo anti-sindacale e l'abbrutimento, contrapposti alle boutique di Piazza dei Martiri (per dire della parte, ancora oggi, più chic della città) dove la camorra si ingentilisce riciclando il suo denaro sporco, e a una intellettualità di sinistra fortemente segnata dall'appartenenza di classe anche quando si professa ultraradicale. E per inciso va detto che non di poco peso nella tessitura narrativa è la componente di classe che Ferrante ha costantemente presente, inestricabile legata alla dimensione della città:
Chissà quale sentimento avrei avuto di Napoli, di me, se mi fossi svegliata tutte le mattine non al rione ma in uno di quei palazzi della litoranea. Cosa cerco? Cambiare la mia nascita? Cambiare, insieme a me stessa, anche gli altri? Ripopolare questa città ora deserta con cittadini senza l'assillo della miseria o dell'avidità, senza astio e senza furie, capaci di godersi lo splendore del paesaggio come le divinità che una volta lo hanno abitato? (p. 205)
Tuttavia, quello che le sta a cuore principalmente è dar conto dei cambiamenti, di quello che si è effettivamente diventate. Cambiare, emanciparsi anche dall'amica e da ciò che rappresenta – da una parte di sé? - è infatti l'ossessione di Elena:
Diventare. Era un verbo che mi aveva sempre ossessionata […] Io volevo diventare, anche se non avevo mai saputo cosa. Ed ero diventata, questo era certo, ma senza un soggetto, senza una vera passione, senza un’ambizione determinata. Ero voluta diventare qualcosa – ecco il punto – solo perché temevo che Lila diventasse chissà chi e io restassi indietro. Il mio diventare era diventare dentro la sua scia. Dovevo ricominciare a diventare, ma per me, da adulta, fuori di lei (Ferrante, Storia di chi fugge e di chi resta, p. 316)
[…] Dovevo accettarmi fuori di lei. Il nocciolo era quello. Accettare che ero una persona media. (p. 257)
Elena, “mutilata” senza Lila, si considera una persona “media” (mediocre?), qualsiasi. La sua parte “geniale”, quella creativa, coraggiosa, forte, capace di sfidare il mondo – ma anche quella “cattiva”, istintiva, selvaggia - è riversata sull’altra metà della coppia amicale – o sul suo doppio – e le due convivono per un antico patto stretto da bambine. Un patto cui l'amica viene meno quando scompare. Gettando Elena nel panico, perché divenire, cambiare è al contrario l'anatema di Lila: lei non vuole cambiare, vuole restare quella che è anche a costo di schiantarsi. Una fedeltà a se stessa senza compromessi, quella di Lila – anche se non priva di opportunismi - che stride con i continui compromessi che Elena giustifica con il suo desiderio di emanciparsi: (<<a quali patti segreti con me stessa avevo acconsentito, pur di eccellere>>, p. 356).
Avevo ecceduto, m’ero sforzata di darmi capacità maschili. Credevo di dover sapere tutto, occuparmi di tutto. Cosa mi importava della politica, delle lotte. Volevo fare bella figura con gli uomini, essere all’altezza. All’altezza di cosa. Della loro ragione, la più irragionevole. (p. 256)
Ma è solo la scomparsa dell'amica – e l'esercizio della scrittura sulla loro storia - che le rende pienamente evidente l'auto-inganno:
Per di più ero stata costretta dalla vicinanza forte di Lila a immaginarmi come non ero. Mi ero sommata a lei, mi sentivo mutilata appena mi sottraevo. Non un’idea, senza Lila. Non un pensiero di cui mi fidassi, senza il sostegno dei suoi pensieri. Non un’immagine. (p. 257)
[…] E' un dispiacere la solitudine femminile delle teste, mi dicevo, è uno sciupio questo tagliarsi via l'una dall'altra, senza protocolli, senza tradizione. […] Ma l'occasione era persa per sempre, da decenni ormai. Dovevo imparare ad accontentarmi di me. (p. 323)
Venendo meno l’elemento dinamico dell’ambivalenza (uguale valenza) - nelle/delle due vite o della doppia vita giocata fino al limite – Elena deve fare i conti con se stessa. Con la dolorosa pienezza della sua appartenenza originaria (a quella famiglia, a quel rione, a quella città) e il vuoto delle appartenenze successive. Con l’essere una donna che si è sforzata di darsi “capacità maschili” ma che, come una Anna Karenina fuori tempo massimo, alla fine del terzo volume lascia marito e figlie per fuggire con un amante. Un uomo, Nino, che è stato anche l'amante dell'amica. Quasi che, in nome dell’amore, si potesse giustificare davvero ogni cosa, ed “eccellere” così in quel campo che è sempre stato (considerato) proprio delle donne, e di Lila in particolare, della sua bellezza, del suo fascino, quello che Elena, meno bella, patisce nel lungo episodio ambientato a Ischia (in Storia del nuovo cognome). << Io sapevo bene com'ero fatta, conoscevo la grezza materialità del mio corpo>> (p. 334), ma ora, da adulta per lei è una sfida: perché non io? Perché non anch'io?
Qui il terzo volume si interrompe, lasciandoci con la domanda aperta se allora non si tratti del più tradizionale e ricorrente motivo di invidia e conflitto tra donne (eterosessuali, ma forse non solo): quello del rapporto con un uomo, da conquistare, legare a sé togliendolo all'altra, un uomo da cui ricevere quelle conferme che altrove non si sono sapute trovare – o non sono bastate - e che sono tanto più importanti perché “lui” ci ha scelto, preferendoci all'altra, a tutte le altre.
[…] e tuttavia presi atto volentieri che Nino, a Lila, non aveva lasciato niente. (p. 268)
No, Lila, non posso più vivere con Pietro perché non posso più fare a meno di Nino, qualsiasi cosa accada me ne andrò con lui; e altre frasi del tipo che esibii come fossero un'onorificenza. Allora lei cominciò a strillare: “Tu butti via tutto quello che sei per Nino? Tu rovini la tua famiglia per quello lì? Sai che cosa ti succederà? Ti userà, ti succhierà il sangue, ti toglierà la voglia di vivere e ti abbandonerà. Perché hai studiato tanto? A che cazzo è servito immaginarmi che ti saresti goduta una vita bellissima anche per me? Ho sbagliato, sei una cretina”. Misi giù il ricevitore come se scottasse. E' gelosa, mi dissi, invidiosa, mi odia. Sì, questa è la verità. […] perché Nino non telefona, è possibile che propria adesso che ho raccontato tutto a Lila, lui si tiri indietro e mi renda ridicola? (p. 381)
Emerge qui non solo un riallacciarsi della narrativa di Ferrante al tema, rovesciato, del suo precedente I giorni dell'abbandono – dove è la perdita dell'uomo amato a creare quel paesaggio di rovine rappresentato da una donna distrutta dal non essere scelta – ma anche, a mio avviso, a ciò che il femminismo ha nominato come il “disagio dell'emancipata”: Elena è riuscita a crearsi una “vita bellissima” (marito, figli, sicurezza economica, scrittura) lasciando apparentemente a Lila tutto il carico del “femminile”: l'indomabilità dei sentimenti, il continuo rischio del baratro, una libertà che si paga a costo altissimo. Ri-mettersi in gioco, per entrambe, dovrebbe o potrebbe far parte di quel divenire che corre sul filo di una irrisolta (irrisolvibile?) ambivalenza con cui le donne del terzo millennio dovranno continuare a fare i conti. Ma c'è chi ce la fa, e chi soccombe.