L'uomo di fiducia
Autore: Michele Lupo
Testata: Lankelot
Data: 3 febbraio 2014
“La prego, signore, in chi o che cosa lei ha fiducia?"
"Ho fiducia nella sfiducia: specie se applicata a lei e alle sue erbe”.
Solo per una battuta del genere un libro meriterebbe di essere conservato nei propri scaffali. Ma attenzione, quella in questione non è una collezione di gag, sebbene la vena umoristica vi sia diffusa: piuttosto, come spesso accade con Herman Melville, L’uomo di fiducia è un romanzo difficilmente definibile che pretende lettori disposti a seguirlo per strade inattese, insolite, mai scontate. Opera del 1857, ancora meno prevedibile di altre e non casualmente ignota ai più, perciò stesso esemplare del perché Melville sia il meno letto fra i veri grandi dell’Ottocento. I suoi romanzi non sono impacchettati e pronti all’uso secondo gusti talmente consolidati già allora da essere presto inerti figuriamoci ora - trama, intreccio, colpi di scena.
Si chiacchiera molto in questo libro. Ci si traveste, si filosofeggia, si sfotte, s’imbroglia. Nella postfazione, Sergio Perosa - che il romanzo lo ha anche tradotto - suggerisce varie derivazioni puntando soprattutto sulla gloriosa ed eccentrica tradizione della satira menippea: nella sua versione in prosa, però. Quella che Northrop Frye definiva anche anatomia, prendendo a sua volta in prestito la nozione dal secentesco Robert Burton: “dissezione o analisi”, che nel contesto narrativo fa agio su un esacerbato sviluppo delle idee.
Tuttavia, sarebbe più saggio per il lettore comune lasciare queste incrostazioni critiche ai più curiosi – agli studiosi – sì da tenere la mente sgombra ed essere pronto invece alla ininterrotta (e divagante e teatrale) messinscena (con tanto di unità di luogo, il battello Fidèle che attraversa il Mississippi) di una vasta congerie di viandanti, popolazione variegata ma non abbastanza da eludere il sospetto che quella umana sia una specie tutto sommato assai poco evoluta. Il lettore che sa rinunciare alla fattura di ingredienti precotti può però assistere a un umoristico e reiterato smascheramento della coglionaggine umana.
Al centro (mobile e inafferrabile) della scena il confidence-man del titolo, protagonista di diverse maschere, allestite tutte per provare a truffare gli altri. L’uomo si presenta all’inizio con un “vestito color panna”, l’aspetto “inoffensivo” di un “bizzarro sempliciotto” che però alle intemperanze altrui reagisce con un aplomb da monaco zen. Sotto spoglie che si riveleranno via via sempre diverse egli darà l’abbrivo ai bizzarri incontri del Fidèle. Gente di ogni tipo naviga sul Mississippi in direzione New Orleans, ma si tratti di poveri cristi, sciancati e stanchi, o di gran dame e uomini d’affari, di avari raggirati o mistici e filantropi almeno sedicenti, lo spettacolo (anche letterale: il magistero pittorico di Melville è al solito straordinario) che offrono è quello di un’umanità fessa quanto verbosa, che anche quando crede di essere astuta non sa sottrarsi alla grottesca magia di chi elargisce illusioni a buon mercato. Che v’è sempre un fesso più fesso degli altri e chi (può anche trattarsi della stessa persona) crede di saperla più lunga di tutti. Così i più sembrano quasi meritarselo il raggiro, tanta è la loro predisposizione gratuita alla suggestione, la propensione alla credulità, come di gregari fermi a un bisogno infantile di essere ingannati. Su questa radice atavica di sprovvedutezza che nessuna magnifica sorte e progressiva pare essere riuscita a smuovere, l’uomo di fiducia ha buon gioco perché sa che la natura stessa – la pur epica natura di Melville – ovviamente è indifferente alla sorte umana e non sta lì per consolare nessuno. Il gabbatore gabbato di questo carnevale biasima l’interlocutore di non avere fiducia nemmeno nella natura, quando, a suo avviso, essa gli fornirebbe gli occhi e la vista per giudicare le cose in qualche modo. – “No, per il privilegio della vista sono debitore a un oculista che mi ha operato a Filadelfia – risponde l’altro. - La natura mi ha fatto cieco e mi avrebbe lasciato così”.
Ecco, la satira in Melville non è il frutto del cinismo ma di quella lucidità rara che non giustappone i propri occhiali al mondo per inquadrarlo a piacimento ma sa far parlare le cose attraverso lo stile (cos’altro dovrebbe significare altrimenti sapere scrivere?). In questo, il caso di dire, fluviale romanzo Melville evoca, con dialoghi agili e spesso comici e virtuosistici, temi di grande profondità sulle sorti umane, passando, come si è detto da più parti, per il più radicale dei pessimismi: come se si possa essere il contrario quando si è un grande scrittore.