Dicono che certi libri sono come film. L’estro del male (E/O, 2013) è uno di questi. Si potrebbe quasi osare un parallelismo televisivo: addentrandosi nella storia del «Mostro della Stretta Bagnera» la mente richiama la storia di Dexter e del suo“dark passenger”, che gli amanti del genere sicuramente conosceranno.
Un accostamento spontaneo non tanto per la storia narrata, quanto invece per una sorta di immediata empatia del lettore nei confronti del mostro.
Con abile scrittura Alberto Paleari ci presenta subito il suo protagonista, Antonio Boggia, e la sua storia. O meglio: la sua fine. Le ultime ore del Togn sono il punto di partenza in cui lo spettatore viene posto. “Una notte lunga una vita”: un uomo, anzi, un vecchio chino sul banco di una chiesa cerca conforto per la sua anima. Questa è la prima immagine che prende vita sotto lo sguardo del lettore, la voce di una sentinella posta a guardia del sagrato anima la scena: «“Quello non è un semplice tagliagole. […] Nan, quell’uomo è molto, molto di più. È Boggia”».
Un’infanzia povera, un padre incapace di mostrare affetto e dai modi violenti, una “passione” innata: osservare l’attimo esatto in cui la vita, con il suo ultimo barlume, abbandona per sempre un corpo.
L’anno è il 1861, l’Italia unitaria ha appena visto la luce, cullata dai tumulti, dalla povertà e da un’amministrazione traballante che dovrà ricercare il suo boia tra i macellai della campagna torinese. Le vicende narrate sono quelle del primo serial killer della storia italiana e si snodano negli anni immediatamente precedenti all’Unità d’Italia, concludendosi con essa.
Un noir storico che ci svela, attraverso perfetti e puntuali salti temporali, i come e i perché di una vicenda italiana. Paleari mostra, nel dettaglio, come non fosse stato il destino o una vita segnata da traumi a trasformare Antonio Boggia in un assassino. Ciò che guidava le azioni criminose del Togn altro non era che il suo forte desiderio di rivalsa economica, che nel romanzo assume le sembianze di una bella donna dalla voce suadente.
Pagina dopo pagina si assiste all’ascesa sociale di Boggia: prima muratore, carpentiere, poi imprenditore edile, amministratore. Oltre che marito e padre. Il lettore osserva le sue azioni descritte attraverso le parole di giudizi imparziali: quei testimoni che raccontano il vero “estro” che portò Boggia a impugnare scure e sega per fare a pezzi i cadaveri di quattro persone. Estro di cui lo stesso Togn parla durante il processo che lo porterà poi alla condanna:«“C’era una scure e una sega. Lì mi saltò un estro: d’un tratto presi la scure e la vibrai con tutta la forza sulla testa della Perrocchio”».
Un uomo all’apparenza tranquillo, dai modi calmi e osservatore dei precetti religiosi: così descritto dai medici che lo dimetteranno dalla Senavra, il manicomio pubblico di Milano. Così descritto da quelle stesse persone che poi accorreranno sotto il patibolo cariche di indignazione.
Non solo la narrazione storica dunque, ma anche un’indagine su quelle che sono le zone d’ombra della mente umana, sull’ipocrisia del potere e sulla morbosità delle masse. Un romanzo basato sulla ricostruzione di un caso giudiziario e di un’epoca temporalmente lontana da noi, ma forse non poi così tanto nelle sue vicende.