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De Roberto e Melville Più che scrittori, scienziati

Autore: Massimiliano Parente
Testata: Il Giornale
Data: 29 dicembre 2013

Herman Melville e Federico De Roberto sono due grandi scrittori nati nell'Ottocento, il primo a New York il secondo a Napoli, molto diversi ma con destini simili e qualche affinità nascosta.


Entrambi, per esempio, sono stati sottovalutati dai loro contemporanei, sebbene questa non sia una novità in letteratura. Melville è morto nel 1891, non celebrato come l'autore di un capolavoro come Moby Dick, si beccò un necrologio di poche righe, ricordato come narratore di romanzi d'avventura.
Quello stesso anno Federico De Roberto iniziava la scrittura de I viceré, il vero capolavoro dell'Ottocento italiano, forse l'unico, superiore anche all'edificante love story manzoniana della Provvidenza, subito monumentalizzata perché più adatta alla morale cattolica italiana (come colse subito Giacomo Leopardi). Così I viceré, più che nelle scuole, è finito in soffitta o meglio affogato nel lago di Como, surclassato perfino, settant'anni dopo, dal Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, la versione banalizzata, provinciale (e pertanto di successo) della potente opera di De Roberto. Nel frattempo, siccome non è un romanzo italiano, Moby Dick ha avuto i meritati riconoscimenti.
È quindi particolarmente indovinata l'accoppiata della nuova uscita per la collana «Gli Intramontabili» delle Edizioni e/o: una raccolta di racconti di De Roberto, scritti appena passata la Prima guerra mondiale (La paura e altri racconti della Grande Guerra) e L'uomo di fiducia, l'ultimo importante romanzo di Melville, pubblicato nel 1857. Perché anche in questi due libri così differenti si possono scorgere affinità sotterranee, e non quelle che vi sciorinano i curatori nelle prefazioni e postfazioni tirando fuori tutta la soporifera argenteria della critica accademica: i riferimenti biblici, filosofici, simbolici in Melville, la sociologia bellica per De Roberto, da confrontare magari con quelle lagne di Lussu e Jahier, due palle. Per carità, sempre meglio della retorica resistenziale e della memorialistica partigiana antifascista che ci toccherà nel secondo dopoguerra: Uomini e no, per intenderci.
Invece le storie narrate da Melville e da De Roberto sono ancora illuminanti e moderne perché mettono in scena l'uomo e lo analizzano con lo sguardo di uno scienziato. Gli uomini imbarcati sul battello Fidèle sono simili a cavie in un laboratorio: continuamente truffati da uno sconosciuto in cui ripongono fiducia e confidenze (l'uomo di fiducia, o confidence-man, appunto, che si traveste continuamente impersonando vari personaggi), assomigliano a esperimenti per uno studio di psicologia evolutiva. Molto più interessante che ragionare sul maligno, il diavolo, il Bene e il Male, a leggere i professorini Melville sembra un antesignano minore di Stephen King, solo più soporifero. Melville, invece, come ogni grande scrittore, viviseziona i comportamenti umani studiando gli automatismi comportamentali di gruppo: L'uomo di fiducia è un esperimento da laboratorio. E se al posto degli uomini mettessimo degli scimpanzé, la storia funzionerebbe lo stesso. Anzi perfino meglio, perché sfrondata del culturalismo umanistico-filosofico capace solo di imbalsamare la letteratura.
Stesso discorso per i racconti bellici di De Roberto, tra cui il più emblematico si intitola La paura. Ossia il sentimento della guerra trasferito dapprima nel senso della quotidianità tra commilitoni, poi sprofondato nella percezione primordiale della paura. Un ribaltamento, a pensarci, rispetto al luogo comune dell'irrazionalità della guerra. Al contrario, la paura prende il sopravvento quando «l'orrore della guerra» coincide con «l'orrore della natura». In quanto la guerra umana in sé, con le sue tattiche, le sue strategie, le sue motivazioni a tavolino, in teoria è fin troppo razionale. Se dovessimo riportarla alla neuroanatomia, al nostro cervello, ogni guerra ha luogo nella corteccia prefrontale: insomma nessun animale non umano dichiarerebbe guerra alla Polonia. Irrazionale (e più naturale) è l'istinto di sopravvivenza, la nostra parte più automatica, più profonda e più ancestrale: il sistema limbico, l'amigdala, il corpo animale che prende il sopravvento sulle convinzioni del pensiero.
Infine, siccome siamo in Italia, nella crudezza di un linguaggio chirurgico culminante nella descrizione dell'ultimo soldato che si uccide per paura di essere ucciso («un colpo che fece schizzare il cervello contro i sacchi del parapetto»), in De Roberto non può mancare l'aspetto tragicomico, dove i comandi sono impartiti a un esercito di smandrappati che si esprime in dialetto, ognuno col suo. Il tenente Alfani impartisce l'ordine fatale chiamando per cognome i soldati, come in un appello scolastico, e mandandoli all'assalto, uno a uno. Mentre i poveretti vengono falcidiati, chi resta si guarda intorno smarrito, qualcuno chiede di consegnare una lettera («Quest ma chi èn letter de casa mia...»), un altro osserva il compagno a terra («Gh'è restaa, scior tenent!»), un altro domanda chi sarà il prossimo («A chi l'è che tocca?»). E qui, oltre a immaginare Gassman e Sordi diretti da Monicelli, già sembra di leggere l'ingegner Gadda.