Mille domande, o forse solo una.
Testata: Hotmag.me
Data: 9 novembre 2013
Come si fa a capire come e quanto si è sbagliato nella vita, se solo qualcosa o tutto o nulla, se molto o poco o una giusta media? Qual è la giusta distanza per vedere in prospettiva: pochi passi o molti anni, essere-nel-momento o aspettare e astrarsi, aggrapparsi a una grondaia e tirarsi su a forza di braccia per osservare le cose dall’alto? Se, camminando su un sentiero di montagna, non si intuisce la forma della cima, né il disegno di curve e rettilinei appena percorso, val la pena di detergersi la fronte, scostare le ciocche sudate dagli occhi e tirare su le maniche della felpa, fermi in mezzo a una macchi di pini, per ammirare il paesaggio, scoprire una distesa di fiori gialli o sbirciare una losanga di mare tra le foglie?
È possibile che il mio telefono riceva tranquillamente in camera da letto e non in soggiorno, o al secondo piano ma non al terzo? Perché in ufficio riesco a parlare solo davanti alla porta del bagno?
Otteniamo sempre quello che ci meritiamo? C’è una giusta misura, una esatta quantità di bene e male che si mantiene in precario tremebondo equilibrio sulle punte, una media aritmetica tra buona sorte e incidenti, fortuna e malattie, stupende sorprese e lancinanti dolori? C’è qualcuno che riceve più di qualcun altro, o semplicemente non siamo in grado di pesare e misurare e giudicare e commentare le vite degli altri, e quello che ci sembra invidiabile o insopportabile è sgradevole o stupendo o anche solo adatto a quella persona e non a noi? Siamo sicuri che esista una forma di giustizia, che si dio o l’equilibrio dell’universo a detenerla, o è solo il caso a riempire con manciate di occasioni e delusioni le nostre giornate?
È etico servire le vongole con una trafila di pasta che non siano spaghetti? E se, passando dalle tagliatelle, si arrivasse alle penne rigate?
Quanto tempo perdiamo a sperare e temere, a valutare e immaginare, a incrociare le dita e spiare segnali invece di vivere l’attimo? Quanti momenti non ci siamo goduti, distratti come eravamo dalla paura di quello che sarebbe successo di lì a qualche minuto, qualche giorno, qualche anno? Come si fa a concentrarsi solo sul qui-e-ora, tagliando fuori tutto quello che è incertezza o generica ansia anticipatoria? Quanto migliorerebbe la nostra vita, se imparassimo a immergerci con stolidità nel flusso delle cose, senza pensare a quando lunedì dovremo svegliarci presto, al mal di testa che avremo mercoledì sera, a cosa regaleremo per Natale o a chi ci inviterà a condividere ancora molte ore ogni giorno?
L’autista di autobus che aspetta che una frotta di ragazzi, all’uscita da scuola, corra a perdifiato fino alla fermata per mettere in moto e partire lasciandoli ansimanti sul marciapiede non sente nemmeno una punta di senso di colpa?
Il proposito di non comprare più libri, per ottime e solide ragioni – mensole traboccanti di volumi ancora non letti, comodino scricchiolante sotto una pila di romanzi intonsi, prezzi di copertina vergognosamente alti – può essere infranto senza eccessivi sensi di colpa con l’acquisto di Storia di chi fugge e di chi resta di Elena Ferrante? Motivare lo strappo col fatto che si tratti dell’ultimo volume di una trilogia è un bieco ricorrere a una scusa, o può essere una giustificazione valida? E il fatto di aver risparmiato il 40% optando per la versione in ebook basta per autoassolvermi senza remore? Mi auguro di sì.