Confessioni pericolose
Autore: Annalena Benini
Testata: Il Foglio
Data: 28 ottobre 2013
Quando Séverine tornò a casa, quella sera, avrebbe voluto bruciare i suoi vestiti e la biancheria, come dopo un delitto. Temeva che suo marito leggesse nella stoffa della gonna quello che lei aveva appena fatto. Si spogliò, si lavò furiosamente, si strofinò la faccia fino a sentire dolore, si mise in accappatoio. Pierre tornò a casa, la baciò come sempre e mentre la baciava Séverine fu gelata di nuovo dal terrore: “I capelli, me ne sono dimenticata”. Era sicura che lui avrebbe capito, che avrebbe sentito dai capelli in che posto terribile era stata, quanto era caduta in basso, e quanto l’aveva tradito. Sul finire degli anni Venti, a Parigi, l’aria di quella casa di appuntamenti, con le ragazze spogliate, come lei si era spogliata, doveva essere per forza entrata in ogni parte di lei. Era stato il primo pomeriggio da “Bella di giorno”, anche se era fuggita via senza combinare nulla. Quasi come chi entra per la prima volta in un sito di appuntamenti extraconiugali, in una chat erotica, si inventa un nome e una password e per un po’ sta a guardare, poi riceve un invito, pensa: non ce la faccio e chiude il computer di scatto. Per un attimo si interroga: si vedrà dai miei occhi, me lo leggerà in faccia quando apro la porta e faccio qualche passo nel corridoio, lo capirà che ho passato il pomeriggio a fantasticare su una stanza d’albergo con la moquette strappata? Pierre, naturalmente, non si accorse che i capelli di Séverine erano entrati in una casa chiusa, come quasi nessuno potrebbe accorgersi di quel che succede dentro uno schermo, dentro un telefono, dentro una chat, che è un po’ come dire: dentro la testa, perché non ci sono corpi, ma soltanto occhi. Séverine non si sarebbe accontentata, lei cercava l’intimità nuda. “Bella di giorno” di Joseph Kessel è appena stato ripubblicato da e/o, con in copertina lo sguardo inquieto e i capelli biondi di Catherine Deneuve nel film di Luis Buñuel in cui è Séverine, la disperatissima moglie felice che ha bisogno di passare i pomeriggi nella casa di madame Anais e incontrare sconosciuti, meglio se orribili, bestiali, puzzolenti, che le lasciano i soldi sul comodino, dalle due alle cinque: e a leggerlo adesso, a quasi novant’anni dalla prima uscita, si capisce perché l’immagine di quell’immenso scandalo, anche interiore, avesse fatto scrivere a Kessel un finale tragico. Nemmeno Madame Bovary, avrebbe mai potuto convivere semplicemente con la responsabilità dei suoi segreti e dei suoi desideri, continuando a raccontare a Charles che andava a prendere lezioni di pianoforte, magari fuggendo finalmente con l’ultimo amore. Nessuna donna poteva tradire così, senza espiazione pubblica, senza prigione, senza buttarsi almeno sotto un treno per il senso di colpa e di perdizione. Joseph Kessel era piuttosto arrabbiato per le accuse che il suo libro ricevette: una moglie della buona società, sposa di un medico stimato, che diventa prostituta, che assurdità, che pornografia, nemmeno in Francia si poteva essere tanto sfacciate, tanto libere di annoiarsi e inventarsi un’altra vita. Kessel si sentì costretto a scrivere una prefazione per spiegare il suo romanzo, e anche a inventare un prologo in cui forse Séverine veniva molestata da un operaio, da bambina, e questo avrebbe spiegato che era una donna danneggiata, che il suo degrado aveva un senso. Kessel volle dichiarare pubblicamente che quello che gli interessava, e il motivo per cui aveva scritto quel libro accusato di “licenziosità gratuite”, era il dramma dell’anima e della carne, non il tradimento, la mostrificazione, non la casa di madame Anais, non i clienti di Bella di giorno. “Bisogna saper disprezzare il falso pudore, così come si disdegna il cattivo gusto. I rimproveri di ordine sociale non mi turbano. Ma i malintesi di ordine morale mi toccano”. Nel 1928 nemmeno la letteratura, quando riguardava una donna, poteva stare lontana dalla morale, serviva un tormento e una punizione: “Mostrare il divorzio terribile fra il cuore e la carne, tra un vero, immenso e tenero amore e l’implacabile esigenza dei sensi”. Secondo Kessel il vero argomento di questo romanzo non erano i pomeriggi di Séverine, resi immortali e affascinanti da Catherine Deneuve che si toglie il cappotto e il cappello, “ma il suo amore per Pierre indipendentemente da questa aberrazione, ed è la tragedia di questo amore”. Bella di giorno amava il suo medico bello, gentile, rispettoso e fiducioso che, a causa della doppia vita della moglie e della valanga che quei pomeriggi provocano, resta paralizzato in un’aggressione e quasi muto. La perdizione di lei provoca il disastro di lui. La sua vita cambia in un attimo, e Pierre, marito distratto, non può fare altro che lasciarsi accudire, per sempre, ma con la convinzione speranzosa di un amore per cui essere grato. E’ in questo momento che Bella di giorno compie la sua vera aberrazione morale, se di moralità si può parlare dentro un romanzo senza rovinarlo per sempre. E’ in questo preciso istante che precipita: lui la guarda fiducioso, cerca con le mani che non sa più muovere di accarezzarle i capelli, e lei gli confessa tutto. Nessuno l’avrebbe scoperta, ma lei vuole raccontargli ogni cosa. I pomeriggi nella casa per appuntamenti con le altre ragazze, gli uomini che hanno attraversato il suo corpo, quell’ultimo uomo pieno di cicatrici che è impazzito per lei, i ritorni a casa la sera in tempo per togliersi di dosso le mani di un altro, la paura di essere ricattata, la fuga dal bordello, il motivo stesso per cui il marito adesso è in quelle condizioni. Kessel non offre il racconto, che si può soltanto immaginare, di quella confessione monologante davanti a un uomo che non può rispondere, alzarsi, sbattere la porta, urlare, andarsene. Lei gli infligge la sua doppia vita rivelata e lui deve tacere e riceverla in faccia. Lui perderà ogni conforto, lei sarà sollevata e potrà sentirsi di nuovo Séverine, moglie dolce, elegante e buona, dedita al marito infermo. Lei gli ha scaricato addosso tutto il peso della sua libera scelta, e adesso può andarsene in giro leggera come una farfalla.
Forse è stato questo il gesto più violento, ben più spietato di tutti i pomeriggi da donna perduta. Non è questo, in fondo, il vero tradimento dell’amore, togliere per sempre le illusioni a chi era felice di cullarle, a chi semplicemente voleva guardare soltanto la luce? O forse invece tutti dovrebbero confessare, liberarsi dei propri segreti, raccontare il punto esatto in cui sono inciampati e ricominciare da lì, pentiti, ammaccati ma liberati dalla verità? Séverine aveva fatto di tutto per impedire al marito di scoprire che cosa c’era davvero in fondo ai suoi occhi, e quando era sicura di esserci riuscita ha voluto invece dirgli chi era, o almeno chi era stata fino a quel momento. Lui non si era accorto che i suoi capelli profumavano di posti proibiti? E adesso, dentro un’altra casa, dentro un altro mondo, un secolo dopo, lui non si accorge che lei non va mai a dormire, sta sempre davanti a quel maledetto computer? Non è l’appartamento troppo riscaldato di madame Anais, è uno schermo freddo senza mani che spogliano, quindi forse non è niente, non c’è nemmeno bisogno di pensarci: inesistenza del sesso, come ha spiegato l’ex senatore democratico Anthony Weiner quando l’hanno beccato, e poi ribeccato, a mandare foto di mutande rigonfie a studentesse su Twitter (non aveva voglia di confessare, ma alla fine ha dovuto, poi sono uscite altre storie, ha dovuto riconfessare, si è giocato la corsa a sindaco di New York, la moglie ha detto: l’ho perdonato, ma si vedrà, e al posto di un trionfo politico ha ispirato, con il suo sexting da bello di notte, una puntata di “Scandal” e una di “Law and Order”). L’inesistenza del sesso, nessuna stanza in cui entrare, niente uomini cattivi pieni di cicatrici: confessarlo è perfino più semplice. Una moglie ha lasciato appositamente acceso il suo computer su uno scambio di messaggi più che ambigui: partiva per il fine settimana da sola e voleva intensamente che il marito la scoprisse. Voleva che lui fosse geloso, che si arrabbiasse e la perdonasse. Gli avrebbe potuto sempre dire: non è successo niente, e sarebbe stato perfino tecnicamente vero. Era la sua confessione di traditrice seriale ma virtuale. Aveva pronte le lacrime, le urla, infine la pace, tutta una serie di previsioni immaginarie sulla vitalità che regala un colpo di scena. Come nella prefazione di Anaïs Nin a “Il delta di venere”: “Il sesso non prospera nella monotonia. Senza sentimento, invenzioni, stati d’animo non ci sono sorprese a letto. Il sesso deve essere innaffiato di lacrime, di risate, di parole, di promesse, di scenate, di gelosia, di tutte le spezie della paura, di viaggi all’estero, di facce nuove, di romanzi, di racconti, di sogni, di fantasia, di musica, di danza, di oppio, di vino”. Ecco, lei immaginava di innaffiare il suo matrimonio con una confessione, di stare dentro un romanzo o almeno una serie televisiva americana. Ma il marito non le ha detto mai nulla, è diventato solo ancora un po’ più distratto: forse non aveva letto (difficile però non leggere, in una casa silenziosa, uno schermo a diciassette pollici in cui continua a lampeggiare e a trillare l’icona di Skype), o forse rifiutava la confessione allo stesso modo in cui, se avesse potuto ribellarsi alla violenza, l’avrebbe rifiutata Pierre, il marito di Bella di giorno. Potendo sapere tutto, succede di non volere sapere più niente. Potendo spiare tutto, succede di rifiutare tutte le informazioni, le password, le confessioni, le intercettazioni. Potendo entrare nelle vite segrete degli altri, in un diluvio oltraggioso di segreti svelati, si desidera, come mai prima, di accontentarsi della spuma sopra l’onda. Di cambiare canale davanti alle ennesime confessioni televisive sulle camere da letto, sugli orientamenti sessuali, su quello che davvero c’è fra due persone.
In un’intervista pubblicata ieri dal Venerdì di Repubblica, Gay Talese, giornalista e scrittore americano, racconta di un milionario del Colorado, negli anni Ottanta, che lo portò a vedere un motel di sua proprietà, con ventuno stanze, dodici delle quali avevano un finto soffitto: da quindici anni lui guardava dall’alto, vedeva e sentiva tutto quello che facevano e dicevano i clienti nel finto segreto di quelle stanze, e prendeva appunti, teneva un archivio. Gay Talese sta scrivendo la storia di quest’uomo per il New Yorker (il milionario, a ottant’anni, ha finalmente concesso a Talese di usare il suo vero nome), ma è appunto il racconto sopra un voyeur, non la storia di un uomo alla ricerca della verità. Adesso, per spiare le vite degli altri, non sarebbe necessaria un’invenzione tanto ingegnosa come un soffitto di cristallo: con il diluvio di sincerità, i telefoni, i computer, le intercettazioni, le confessioni, le interviste per spiegare che cosa succedeva davvero in quella camera da letto, si può arrivare a scoprire tutto. Si può arrivare a sentirsi come Pierre, immobilizzato su una sedia e costretto ad ascoltare per sempre e a risentire nella testa la confessione di Bella di giorno. E’ l’ultima pagina del romanzo (essendo uscito novant’anni fa, essendo poi diventato un film famoso, il divieto di raccontare il finale è caduto, e comunque nessun segreto sarà mai più salvo, tanto vale abituarsi), e anche se Kessel si interroga soltanto sui motivi (“come spiegare un tale impulso? Solo con l’impotenza di mostrare una virtù rifatta a colui che l’amava di un amore infinito? Con il bisogno – meno nobile – della confessione? Con la sotterranea speranza di essere perdonata malgrado tutto e di vivere poi senza il peso di un orribile segreto?”), c’è il sospetto del compiacimento: Séverine voleva essere scoperta, ma voleva essere lei a decidere che cosa raccontare, e come. E’ questo il potere di una confessione: è la mia versione della debolezza, del tradimento, dell’ombra in cui mi sono voluto tuffare, tu adesso ascoltami e basta, apprezza la mia sincerità, il mio coraggio. Per questo, quando un uomo ha confessato un tradimento alla moglie (non per amore di verità, ma perché lei aveva trovato un file video dentro una chiavetta, e guardare il video equivaleva a guardare da un soffitto di cristallo quello che fanno due persone in un motel, e una delle persone era il marito), la confessione, carica di tutte le attenuanti possibili, non è bastata. La moglie è voluta entrare nella verità nuda, quella che fa più male di tutto. Ha messo un piccolo registratore digitale in macchina, uno di quelli con la memoria lunga, sei ore di registrazione di clacson, giornale radio, canzoni, imprecazioni contro automobilisti, nasi soffiati e, finalmente, una telefonata all’amante dall’automobile, poi persino il rumore dei tacchi di lei che entrano in macchina, la portiera che sbatte impaziente, le schermaglie sui sedili, “e se ci vede qualcuno?”, “meglio, mi piace quando ci guardano”. La verità non edulcorata da una confessione, la verità come un’intercettazione, e lei con le cuffie ad ascoltarla tutta in ufficio, la mascella contratta, le lacrime sulle guance. Ma ancora non le bastava, voleva sprofondare nella verità. Ha cercato un investigatore privato che seguisse quel marito nemmeno prudente che lasciava in giro telefoni, chiavette, vecchi computer pieni di vecchie storie, cassetti aperti su un’altra vita. Ma gli investigatori privati sono impegnatissimi, molto più degli idraulici, e lei ora è in lista d’attesa. “Signora, adesso non ho tempo, sto seguendo una persona importante”. Stanno tutti seguendo persone importanti, verità importanti, confessioni importanti, pezzi importanti di verità, dove per verità si intende esclusivamente: il lato oscuro. Quello che non avresti voluto fare, e poi hai fatto, quello che hai davvero guardato dentro il computer, quello che le hai davvero scritto in quel messaggio, quella debolezza che credevi fosse soltanto tua. Quello che davvero c’è fra due persone, perfino (la cosa segreta che nessuno può mai conoscere del tutto, nemmeno i protagonisti della storia, nemmeno in una vita intera) è affidata alle confessioni di altri, alle certezze di terzi, al desiderio di verità dei passanti, a qualche spiata. La verità ha senso solo se è velenosa, se getta un’ombra. Ma troppe informazioni fanno venire voglia di segreti, così come troppa tranquilla felicità fece forse venire a Belle de jour voglia di perderla. Pierre non pronunciò mai più una parola, quindi è difficile immaginare se quella confessione l’avesse davvero liberato. Se davvero esiste questo continuo, ossessivo bisogno di verità, o se è una necessità che riguarda ancora di più la voglia di stare sdraiati su quel finto soffitto, a guardare che cosa succede là sotto.