Massimo Tallone, autore di "Il diavolo ai giardini Cavour" edito da EO, un giallo magistrale pregno di suspense made in Italy, ha incontrato Anna e Diana che, dopo la lettura del romanzo, hanno chiacchierato con lo scrittore di giallo, caratterizzazione dei personaggi ed ironia.
Buona lettura!
Una caratteristica del suo romanzo, che abbiamo riscontrato sia io che l’altra collega che ha letto il Diavolo ai Giardini, è che il “giallo” è nei personaggi stessi. Le descrizioni, l’uso di alcune figure retoriche e la forte caratterizzazione dei personaggi portano il lettore ad indagare in primis su di loro e poi sull’azione esterna. Che tipo di lavoro ha fatto sui personaggi? Ma soprattutto quello di indagare sui personaggi, a favore di una maggiore introspezione, sembra essere un’evoluzione del genere giallo stesso. O sbaglio?
Questa domanda è davvero straordinaria e direi perfetta. Infatti mi permette di dire due cose a cui tengo molto. La prima: io non credo molto alle etichette e all’idea consolidata di ‘genere’. Mi sembra che esista soltanto la scrittura, lo stile, la tecnica che un autore adotta per dare spessore, verosimiglianza e oserei dire tridimensionalità alla sua narrazione.
C’è da dire che il cosiddetto genere giallo, alla cui base c’è di solito un enigma, un delitto o qualche cosa di simile, aiuta molto a innescare il processo iniziale di cattura dell’attenzione, ma poi, per quanto mi riguarda, è indispensabile, per me, lavorare su più piani, dalla precisione espressiva alla fluidità sintattica, dalla esplorazione di zone in ombra dell’essere o della società al dosaggio di elementi comici e umoristici.
Da questo punto di vista, il giallo mi serve come pretesto, come motorino di avviamento per far partire un viaggio letterario più sfumato e sfaccettato. La seconda considerazione: è la prima volta che mi si chiede se i miei personaggi possono essere visti essi stessi come indagati, più che indagatori, come soggetto di analisi, e la risposta è sì. Non soltanto: l’indagine che nei miei libri si compie sui personaggi, sul mistero relativo agli aspetti meno evidenti della loro personalità o alla loro evoluzione o reazione di fronte ai casi del mondo e alle prove della vita, è il vero doppio fondo narrativo dei miei lavori. E in effetti lo studio del personaggio mi prende molto tempo, in fase di elaborazione di un romanzo. A Vienna, la voce narrante del Diavolo ai giardini Cavour, ho inflitto la malattia delle ossa di vetro perché avevo bisogno di un testimone che potesse restare distaccato sul piano emotivo anche nei momenti più tremendi (vedi messa nera). Una malattia come quella di Vienna educa fin da bambini all’autocontrollo necessario ad evitare per tutta la vita cadute o urti. E così per gli altri personaggi.
Torino. Una città che dall’esterno è vista come un’oasi di pace e tranquillità, in realtà rivela un vero e proprio lato oscuro. I personaggi vivono la città, non l’attraversano e i luoghi assumono un contorno preciso. Come ha scelto gli scorci e gli angoli della città che attraversano i protagonisti? Ma soprattutto perché ha deciso di regalare ai lettori non piemontesi una visione di Torino diversa e non convenzionale.
Una delle mie intenzioni narrative è sempre stata quella di trattare i luoghi e le scene in cui si svolgono i fatti non soltanto come semplice scenario, ma come protagonisti a pieno titolo della storia, al pari dei personaggi. Ogni luogo ha una sua specificità, come è noto, una sorta di genius loci che caratterizza i caratteri e i costumi, che polarizza le percezioni, che innerva e garantisce la persistenza di usanze e abitudini. Come tutte le città e tutti i luoghi, Torino ha sviluppato nel tempo radici profonde capaci di gettare germogli invisibili che si avvitano agli angoli delle piazze, che corrono lungo il fiume, che crescono su certi monumenti, che collegano persone che non si conoscono. Bisogna far flanella, passeggiare con aria distratta e sguardo attento per intercettare questi germogli e catturare le ombre, appunto, per poi illuminarle con la lampada a raggi x della letteratura.
L’ironia è una componente fondamentale all’interno del suo racconto ed è un elemento sempre molto apprezzato dai lettori, ma da un punto di vista tecnico quanto è difficile inserirla nella struttura del romanzo?
Considero una specie di dovere morale garantire non soltanto ai miei lavori di scrittura, ma alla mia stessa esistenza privata una notevole percentuale di comicità e di umorismo. Non so bene perché sia così, ma so che mi sono sempre trovato bene attingendo ogni giorno alla fontana inesauribile della risata. Sul piano tecnico, l’innesto di elementi comici o umoristici in un romanzo non può avvenire in maniera meccanica, ma richiede una faticosa, almeno per me, caccia al tono giusto, al registro efficace, all’interno dei quali poter far partire derive umoristiche senza stonature o forzature.
I “giallisti” italiani negli ultimi anni hanno dovuto combattere con il fascino degli scrittori svedesi prima e con quelli orientali ora. Cosa può offrire ai lettori un giallo made in italy e soprattutto cosa si può fare per “esportarlo” al pari degli autori stranieri che troviamo in libreria?
I giallisti italiani mi sembrano piuttosto agguerriti e ben preparati, e con una capacità di sguardo più ampia rispetto a molti colleghi stranieri, senza dover ricorrere a eccessi horror o effetti ed efferatezze speciali in cui eccellono i nordici. Per quanto riguarda il mercato, forse è anche vero che i lettori gli italiani sono abbastanza esterofili, ma questo mi sembra il problema minore, rispetto alla loro scarsa propensione alla lettura, almeno a giudicare dai dati statistici. E forse è lì il segreto: se gli autori italiani vendessero nel loro paese alla pari di quanto vendono gli svedesi nel loro, forse susciterebbero interesse nelle fiere internazionali. Ma giurare a Francoforte su un romanzo che in patria ha venduto meno di cinquemila copie può risultare un compito difficile.