Macadàm di Paolo Teobaldi
Autore: Marco Ferri
Testata: Filobus66
Data: 28 giugno 2013
A parte Scala di Giocca (1984), Teobaldi ha pubblicato dal 1995 al 2013, cioè in 18 anni, 6 libri, tutti dalla e/o: Finte (1995), La discarica (1998) Il padre dei nomi (2002) La badante (2004) finalista al premio Strega (che come diceva Virginia Woolf, nonostante che sia finalista a un premio noi lo leggiamo lo stesso), Il mio manicomio (2007) e ora, dopo 6 anni, Macadàm (2013). Tranne per La badante, si nota che passano diversi anni tra un libro e l’altro, e sono anni di intense stesure. Forse stesure come vocabolo non rende. Scritture. Giorni e mesi interi di scritture, scritture che si espandono e poi si restringono, che si accumulano e si assottigliano, magari a malincuore, perché è come perdere una parte di sé. E alla fine vengono setacciate, ma non con intenti punitivi o di esclusione elitaria e letteraria di alcune parole (o peggio selezione furba delle parole per il mercato internazionale, quindi l’uso di un linguaggio medio e facilmente traducibile), semmai il contrario, una selezione inclusiva, che offre cittadinanza a parole disperse, residuali o marginali come i parlanti che le usano. L’universo narrativo di Teobaldi, come ha detto Starnone, dipende dalle parole, lui deve essere affascinato dalle parole per riuscire a costruire una storia. Meglio: da parole parlate, modulate dalla voce. Personalizzate. Ovviamente non c’è soltanto questo, ma questo è un problema, come notava Franco Brevini nel libro La letteratura degli italiani: infatti gli scrittori italiani si sono trovati per tanti secoli (sottolineo per tanti secoli) “a operare con una lingua arcaica, irreale, mandarina, aulica, gelosamente conservata in una teca lessicografica”. Più crudelmente: “per secoli un paese vivo ha espresso se stesso attraverso una lingua morta”. Una letteratura che si è nutrita di carta.
Dunque tutto è immerso nella lingua – la lingua è il mondo sonoro che conferisce il senso alle storie – ed è appunto una lingua funzionale allo scambio narrativo tra l’oralità e la scrittura, tra il popolare e il colto, tra il padre (padrelingua) e Gadda come simbolo di una cultura che non impone una propria lingua letteraria e una propria sintassi ma si nutre di tutto, del basso e dell’alto, dei dizionari, dei gerghi professionali, dei dialetti, dei neologismi.
Tranne Finte, che si può considerare un campionario di atteggiamenti umani, molto umani, nei confronti della morte, gli altri libri affrontano ciascuno un mestiere : insegnante, netturbino, pubblicitario, badante, infermiera, cantoniere. Eppure non è facile entrare nell’altrui mestiere, richiede studi, approfondimenti, domande, soprattutto perché Paolo Teobaldi non avvicina un mestiere in modo superficiale, ha quasi un culto verso i mondi del fare, compreso il proprio, quello della scrittura. In una vecchia intervista Teobaldi aveva detto che per scrivere bisogna un po’ nutrirsi vampirescamente della vita degli altri, ma questo atteggiamento diventa inevitabilmente ossessivo, perché la cura minuziosa dei particolari e soprattutto condividere la vita dei personaggi creati, diventa per lo scrittore una ossessione (cioè etimologicamente un assedio, una lenta conquista). Inoltre il suo mestiere di insegnante, cioè un mestiere che richiede anche questo un uso corretto delle parole, si nutre – in questo caso non vampirescamente ma proprio come educazione – del mestiere artigianale del padre, perché le cose devono essere spiegate e raccontate ma devono anche funzionare.
L’andamento o l’andatura dei suoi libri è in effetti una lenta conquista, una comprensione che avviene quando tutte le parti del suo patchwork cominciano a legarsi insieme, a scambiarsi messaggi e soprattutto a completare il quadro. (Non vorrei esagerare e tediare con le etimologie, ma pezza (patch) o pècia indicava anche ciascuno dei fascicoli che componevano un manoscritto medievale, un foglio piegato in quattro: qui si potrebbe ipotizzare che i capitoli dei suoi libri abbiano una funzione analoga). Infine Teobaldi è Teobaldi, cioè lo scrittore Teobaldi che ha una sua idea del narrare. E questo fatto lo ritroviamo addirittura dichiarato in esergo (cioè prima dell’opera): due indicazioni chiare : la dedica al padre, falegname e narratore, che nel figlio diventano un mestiere unico, un alto artigianato della parola, e una citazione da Gadda, preso come esempio sia di una cura minuziosa del linguaggio e dei linguaggi, dei dialetti e dei gerghi, sia come esempio di una curiosità ironica e sempre stupita, e spesso un po’ laterale, cioè vista da una angolazione obliqua, verso le cose e i comportamenti umani. Il padre dei nomi aveva un esergo ugualmente significativo : “Chiamatemi Ismaele” (l’incipit semplicemente straordinario di Moby Dick) e subito sotto “chiamami *** sarò la tua birra”. (Non so perché, forse per somiglianza, mi viene in mente la descrizione di un’opera lirica che apre, con il titolo Teatro, La Madonna dei filosofi, ecco, nonostante l’accostamento dissacrante tra réclame e Melville, Paolo è generalmente meno caustico di Gadda e più – con il passare degli anni – convinto del valore fondamentale, nei rapporti umani – e qui ci cade anche lo scrivere un romanzo – della pietas. Questa convinzione secondo me comincia a manifestarsi già nel secondo libro delle edizioni e/o. Un altro esergo, da La discarica, è rivelatore, diceva: “L’è robi delichèdi” (Raffaello Baldini), sono cose delicate.
In effetti qual è il rapporto tra lo scrittore Teobaldi e i suoi personaggi? Questo aspetto non è secondario, e ci interessa perché in qualche modo finisce per decidere lo stile e i toni del racconto. Macadàm, il cantoniere soprannominato Macadàm, viene presentato attraverso un lungo periodo, sintatticamente molto complesso, che però a poco a poco include quasi tutto, nome, genitori, mestiere, un accenno al figlio nato morto, e i luoghi, la casa cantoniera, il curvone, e la rocca, uno dei simboli storici della sua città. Macadàm è nella sala d’aspetto del medico della mutua, come si diceva a quel tempo, e osserva dei quadri appesi. Il suo è quello che si chiama flusso di coscienza o monologo interiore. Eppure si sente che Macadàm non è solo, non tanto perché il cantoniere è subito inserito in un racconto corale (“Dicevano tutti”), quanto perché qualcuno si preoccupa di presentarlo al lettore, con affetto, cominciando dal cognome, come in una presentazione ironicamente burocratica. Narratore e personaggio si passano il testimone. Chi è che racconta che dalla casa cantoniera fino a piazza Duomo a Milano, un tempo, prima che interrassero i Navigli, si poteva arrivare in moscone? Il cantoniere fa andare i suoi pensieri e il narratore lo asseconda, ma non sempre, certe volte prosegue con le sue fantasie, insomma lo scrittore non ha sempre questa funzione socratica verso i suoi personaggi, questo mestiere materno della levatrice, ma comincia a curiosare lì attorno. Attorno alla Rocca, per esempio, ci sono le prostitute, i militari, i bambini che giocano, e altro. Così la prima pezza del patchwork comincia a intrecciare parole come fili colorati. Cioè c’è questo contrasto dei toni e delle coloriture. Il comico, il drammatico, il tragico, non solo stanno insieme, ma sono intrecciati insieme, costruiscono frase dopo frase quell’ineffabile equilibrio di luci e ombre che distingue la prosa di Teobaldi. A quale genere appartiene la sua narrativa? Nessuno. Però ha assimilato tante cose.
Il cinema – cioè quanto di più estraneo alla sua prosa – non è del tutto escluso. Lui fa i suoi esempi, parla di suggestioni filmiche per certe descrizioni in movimento, io ne farei un altro. La tecnica dei tableaux vivants. Dei quadri che si animano. Non parlo di quegli effetti stupidi da esposizioni universali, e neanche della tecnica filmica che cita da opere di alta cultura (il Pasolini della Ricotta, Peter Greenaway, Majewski per Peter Brueghel, il Rubliev di Tarkovskij, etc.) ma di una tecnica tutta sua, che abbiamo visto muoversi dalla stampa della Rocca e animarla nel tempo. In modo analogo si animano le strade, il curvone, le case. E ogni capitolo sembra riprendere il discorso interrotto e aggiungere un altro ordito di storie sulla trama delle strade e delle case. Così ad ogni nuovo pezzo o pezza vedete animarsi di nuovo la stessa umanità, come rigenerata dalle parole che costituiscono il vocabolario del loro mondo sonoro.
Ma questi quadri o episodi che di volta in volta si aggiungono e si saldano, sono legati tra loro da un filo carsico che manda delle sonorità che bisogna imparare a percepire, perché evidentemente c’è dell’altro, e non sono soltanto sonorità ma anche profumi, odori, come quello di Isolina che quando appare per la prima volta è contraddistinta dal profumo del ciambelline al forno, che non è un caso, anzi è un motivo che verrà ripreso più avanti. Dietro questi quadri che si animano c’è dunque un’altra storia che non è stata dimenticata ma che agisce manifestandosi con un ritmo, uno smorzato che scende fino al silenzio (culinario) e poi una ripresa jazzistica fino al battuto finale. Perché c’è un gusto sinfonico, non saprei definirlo in altro modo, che ispira il racconto. Questo racconto parlato che ha gli accenti tonici della poesia – e per finire, tornando a Brevini – più vicino alla grande poesia dialettale che a quella che si nutre di carta.