L’esordio non aveva lasciato alcun dubbio: Viola di Grado con Settanta acrilico trenta lana, nel 2011 ha vinto il Premio Campiello Opera prima e il Premio Rapallo Carige Opera prima. Qualcuno ha pensato fosse la nuova Elena Ferrante, altri addirittura l’accostano senza esitazione a Tommaso Landolfi, quel che è certo è invece che la sua voce rimane assolutamente unica nel panorama letterario italiano di questi anni, per le tematiche dei suoi romanzi, e soprattutto per la sperimentazione linguistica. E di linguaggio e incomunicabilità sono fatte le sue storie.
La protagonista di Settanta acrilico Trenta lana si chiama Camelia e soffre di anoressia verbale: dopo la morte del padre non riesce a parlare con la madre, anche lei ammutolita. Comincia tra le due donne un dialogo fatto di sguardi che divengono frasi ben precise, per cui non pronunciano più parole ma dicono sguardi, come scrive l’autrice; inoltre, che Camelia studi il cinese dà alla Di Grado la possibilità di giocare meravigliosamente con la lingua italiana, la trama del suo romanzo e le chiavi delle parole cinesi.
Viola è il nome di un fiore, come Camelia, e come Giglio, il cognome della protagonista di Cuore cavo, Dorotea. Anche qui ritorna il tema dell’incomunicabilità, che – in occasione della presentazione romana del romanzo, dove a parlare dei suoi libri c’era lo storico della letteratura Giulio Ferroni – l’autrice confessa di “amare, in tutto ciò che scrive”.
In Cuore Cavo l’incomunicabilità è dovuta alla morte: Dorotea si suicida nelle prime pagine del libro, quindi la maggior parte della narrazione è lasciata ad una morta, al ritmo lento della sua decomposizione, descritta come in un diario fedele d’adolescente, con la precisione di una studentessa di biologia. Insetti, parassiti, tessuti, liquidi, tutto viene descritto in una lingua mista di poesia e termini tecnici, perché Viola Di Grado si interessa di filosofia orientale e sente che in Occidente il tabù sul tema della decomposizione è forte. Eppure si tratta di un’importante fase di transizione tra la vita e la morte, e sceglie di indagarla nel suo libro. Dorotea diventa “una testimone dalla sensibilità spiccata, puro pensiero, come dietro un vetro”, dice, e il racconto dell’interiorità si fa fisico.
Da morta, Dorotea non riesce a leggere. Quest’altro particolare tradisce l’amore dell’autrice per lo sfasamento e le permette di far sì che i suoi personaggi guardino il mondo da lontano, ad una certa distanza. Di grande effetto anche per il lettore.
La tragedia dell’assenza paterna, in Settanta acrilico trenta lana, si rinnova in Cuore cavo, in modi diversi. Espediente per cui i rapporti tra le donne del nucleo familiare vengono indagati con particolare attenzione, e con spessore. Il mio dolore è di terza, quarta mano. È il dolore di mia madre e della madre di sua madre e la catena continua senza mai una giuntura, uno stacco. L’intreccio del dolore e delle vicende familiari delle donne della famiglia di Dorotea sono una costante del romanzo, delicate, femminili, silenziose. Ognuna porta il segno delle ferite dell’altra. Senza giuntura, così che i termini usati per le articolazioni umane diventano perfetti per parlare dei rapporti umani.
I luoghi, per la Di Grado, sono sempre geograficamente precisi. Nel primo romanzo Leeds, città fredda e gelida; in Cuore cavo Catania, calda, afosa, con le sue strade, i suoi paesaggi, i sapori estivi, una città che Ferroni definisce “una delle più letterarie d’Italia”, crocevia di scrittori come Verga, Brancati e De Roberto.
Viola Di Grado si riconferma autrice di spessore, a tratti provocatoria nella scelta delle sue trame, di sicuro talento nell’uso della lingua italiana, narratrice atipica, come ha voluto definirla Giulio Ferroni. L’autrice sarà al salone del libro di Torino il 20 maggio.