Le stanze degli scrittori: Marco Rossari
Testata: Archivio Caltari
Data: 8 aprile 2013
La scrivania è stata acquistata almeno dieci anni fa presso una grossa multinazionale svedese dell’arredamento. Ci ho scritto tre libri: due sono stati pubblicati e l’altro no. Il destino di quest’ultimo Coso è uno dei miei crucci: essendo stato rifiutato da tutti gli editori (non l’ho proposto a quelli a pagamento, perché se avessero detto no anche loro non so come l’avrei presa), per qualche misteriosa ragione ho cominciato a dubitarne e quindi a modificarlo. Il Coso ha cambiato forma, si è espanso in direzioni inaspettate, a volte non mi rendo nemmeno conto di lavorare a quel libro. È la Torah di se stesso, la chiosa della chiosa.
Comunque dietro la scrivania c’è il letto. Intorno al computer, si notano:
- Un libro minore di Piovene. È lì da almeno sette anni. L’ho comprato a una bancarella e, come mi capita con autori di cui non ho letto niente, mi sono detto: «Partiamo da un libro minore», convinto dai 2,99 €. Come no. Ormai, come due persone reciprocamente attratte da troppo tempo, non troviamo più lo slancio per baciarci.
- Una scatola (vuota) di Lacca Cera Speranza, per non dimenticare che scrivere vuol dire lavorare di gomito, di mestiere, di bulino, di traspirazione e tutte le solite e sacrosante fregnacce che ci ripetiamo a ogni corso di scrittura creativa. Inoltre la speranza è l’ultima a eccetera (per quanto alla fine muoia).
- La testa gommosa di Freud. Ho sempre evitato psicoanalisi e affini. Come blaterava quel tizio: «Non sono mai andato d’accordo con sciamani, stregoni o psichiatri. Della condizione umana hanno capito molto più Shakespeare, Tolstoj o persino Dickens di chiunque di voi». Però ho un debito per ragioni mie e non vedo perché buttare il bambino con l’acqua sporca. Lo scacciapensieri mi libera dallo stress e rafforza l’avambraccio.
- Una quantità di taccuini. Ci sono gli appunti dei romanzi che non scriverò mai, come in ogni moleskine che si rispetti. Quella delle moleskine è una cospirazione internazionale ordita da Chatwin e Hemingway: sono state inventate per arginare il flusso di manoscritti verso le case editrici. Appena ne compri una, ti condanni a sfiga, inazione, vaghezza, ignavia, dubbi, smarrimento, suicidio (infatti uno dei due c’è rimasto).
- La stampata della prossima traduzione per Mondadori.
- Un libro di Carlo Emilio Gadda che pilucco.
- Un’altra palletta gommosa, gentile omaggio di Jack Torrance.
- Un accendino con una graziosa signorina che, schiacciato un pulsante di lato alla James Bond, viene anche proiettata sulla parete, all’occorrenza.
- Un’immagine del grande Alberto Grifi (mi piace lei e mi piace l’occhio).
- Un buon dizionario di inglese, il Picchi (anche se il grosso dei dizionari è dietro la sedia).
- Un sacchettino della Shakespeare&Co. di Parigi che non trovo la forza di buttare.
In realtà su questa scrivania scrivo la metà del tempo. L’altra metà la passo in un posto trasgressivo, maudit, eversivo. Ci trovi libri, cd e perfino dvd gratis (l’ho detto: è al limite della legalità). Si chiama “biblioteca” e un tempo era popolato da persone che leggevano, studiavano e appunto scrivevano. Ora è un bivacco di manipoli in età adolescenziale, forniti di acne a profusione, merendine ipercaloriche e voce cavernosa, ai quali non è facile spiegare che le tue occhiate severe non cercano cinquanta sfumature di Lolita.
Altro problema, i bibliotecari. Fino a poco tempo fa, godevo di anonimato: nessuno mi conosceva e potevo tradurre o scrivere senza noie. Ma per colpa di un maledetto articolo pubblicato su “La Lettura”, accompagnato da una fotografia sgranata in cui sembro (pensa te) un traduttore, sono diventato una sorta di piccolo vip nel brago anonimo della rionale. E lì sono cominciati i guai.
Prima mi è stato chiesto se volevo “adottare” la biblioteca.
«Un’iniziativa dell’assessore: ogni biblioteca rionale andrebbe patrocinata da uno scrittore. Almeno lei la conosciamo…».
Meglio di un figlio di buonadonna qualsiasi, era il sottinteso. Ho nicchiato, anche perché mi sembrava che l’adozione comportasse una perniciosa partecipazione alle attività collaterali: oscure riunioni serali chiamate “gruppi di lettura” in cui anime in pena si leggono a vicenda brani di scrittrici canadesi, in un’eco del momento in cui il protagonista di Fight Club partecipa alle riunioni dei malati terminali.
Inoltre, dio solo sa se non ne ho abbastanza di reading e affini.
Infine la biblioteca ha fatto l’estremo gesto e ha acquistato un mio libro.
«È già andato in prestito!», mi ha avvertito premurosa la bibliotecaria. «Non ci tiene a sapere chi lo ha preso?».
«Sì».
Era mia madre.