Ritorna in libreria Viola Di Grado, una delle scrittrici più originali e creative degli ultimi anni, confermandosi talento della narrativa italiana. La giovane scrittrice catanese dopo il Premio Campiello Opera Prima per “Settanta acrilico, trenta lana”, ci regala una storia fatta per chi ha paura della morte, ma anche per chi ha paura della vita. È uscito infatti “Cuore cavo” facendo la felicità di tantissimi lettori che non vedono l’ora di poter leggere il nuovo romanzo di Viola Di Grado alla quale abbiamo fatto alcune domande.
Per quanto ci si possa sentire sicuri di sé e della propria arte, quanta pressione c’è stata per la seconda opera, di chi viene considerata come un nome di punta della letteratura emergente italiana?
Il mio problema non è la pressione esterna ma quella mia interna: sono il giudice più severo esistente. Tra “Settanta acrilico” e “Cuore cavo” ho scritto altri due romanzi di cui non ero soddisfatta al cento per cento e che quindi ho messo da parte una volta conclusi.
Da una persona così giovane non ci si aspetterebbe una visone così lucida e tagliente sulla vita, quanto di vissuto c’è nell’opera, e quanto invece è frutto di ricerca e studio?
Non sono ancora deceduta, almeno secondo l’anagrafe. Quindi sì, direi che la mia analisi del corpo in decomposizione è frutto di ricerche.
Nel suo romanzo descrive un aldilà con sentimenti molto simili alla vita terrena. Perché si aspetta che ci sia un aldilà?
Non c’è un aldilà. M’interessava sfatare il mito della morte, presentarla solo come una trasformazione, secondo la visione ciclica dei cinesi. Abbattere il muro. La vita di Dorotea è molto simile alla sua morte. La prima cosa che fa da morta è andare al lavoro, come ogni mattina.
Perché un fantasma avrebbe bisogno di provare sentimenti così reali e umani? “
Perché non dovrebbe?
La cura nella descrizione approfondita di corpi in disfacimento è una necessità per chi scrive per esorcizzare qualcosa o piuttosto un tentativo di far immedesimare chi legge?
Nessuna delle due. Lo stato ambiguo del corpo in disfacimento è un tabù occidentale: culturalmente abbiamo bisogno di mettere una barriera tra vita e morte, e il cadavere rappresenta una fase intermedia tra le due: svela la morte come processo e non come evento, mettendo in dubbio la netta barriera di cui la nostra civiltà ha tanta necessità. Ecco perché molti sono turbati dalla mia analisi minuziosa della decomposizione, ma anziché chiedersi perché la faccio dovrebbero chiedersi perché sono turbati.
Potendolo immaginare per un attimo, quale libro avrebbe voluto scrivere?
Non mi affascina l’idea di scrivere il libro di un altro scrittore.
Com’è fatto il quotidiano di un ex enfant prodige?
Ultimamente studio svedese. Inoltre sto insegnando inglese ai militari al Ministero della Pubblica Difesa.
Qual è il consiglio che non ha mai seguito?
Concentrati su altro, è difficile pubblicare ed avere successo come scrittore.