Dopo l'esordio del 2011 (Settanta acrilico misto lana) Viola Di Grado torna con un libro più strano e più radicale, Cuore cavo (edizioni e/o, pp. 166, € 16,00), che conferma e rafforza la sua originalità, la sua capacità di dar voce alla paradossale evanescenza dell'esistere, la sua disposizione ad affidare al linguaggio una vera e propria interrogazione del senso del mondo. La giovane catanese sfugge alle categorie, alle caselle, ai generi su cui si dispone oggi la più corrente letteratura; e, pur non trascurando temi e riferimenti all'ordine del giorno nella cultura giovanile, è del tutto estranea alla banalità di certi modelli giovanili che oggi vanno per la maggiore. Se nel precedente romanzo aveva dato un estroso attraversamento del nulla e dell'evanescenza del vivere contemporaneo, immettendo la sua protagonista dal nome floreale, Camelia, nella slabbrata vita di una cupa città inglese, ora con Cuore cavo arriva a dar voce a una morta: a parlare in prima persona è una ragazza catanese, Dorotea Giglio (oro e fiore), che narra il proprio suicidio e la vicenda del suo esistere dopo la morte. Quella che siamo abituati a chiamare l'anima è come un ectoplasma vocale che emana dal corpo in disfacimento nella tomba: nella sua inconsistente consistenza si muove e ritorna sui luoghi della sua esistenza, facendo balenare qualche ricordo della breve vita vissuta, spiando la quotidianità di coloro che sopravvivono, percependo l'eco di ciò che continua a verificarsi nel mondo dei vivi. Voce dell'oltretomba, insomma, che può far pensare a vari precedenti letterari, ma che Viola Di Grado viene a scavare come dall'interno, a sentirne la disposizione ad aprire dei vuoti, dentro di sé e fuori di sé: il punto di vista della morta mantiene una sua familiarità con le cose più consuete della vita di una venticinquenne (questa è l'età in cui Dorotea si è suicidata, il 23 luglio
2011): con gli studi universitari di biologia, con la sua stanza e con gli oggetti che le stanno intorno, con i luoghi che frequenta, con le sue abitudini quotidiane; segue l'esistenza della madre e della zia, sente ancora su di sé l'inquietudine per il passato della sua famiglia, lacerata dall'assenza del padre, vorrebbe regolare i conti con il ragazzo con cui ha avuto una storia senza vero amore. Ma nel toccare le tracce che rimangono della sua quotidianità, fa assumere a esse un carattere singolarmente stravolto, le fa evaporare in una stralunata evanescenza, che ha tratti drammatici e tratti di sinfonia comica, in quella che potrebbe definirsi una Totentanz alla misura del nostro mondo secolarizzato, di un consueto universo cittadino, e sia pure di una città particolarmente «letteraria» come Catania. Stando nel mondo senza essere nel mondo, questa morta prende cognizione della privazione di sé, del modo in cui le cose con cui ha occupato la vita si vanificano completamente quando essa le ha lasciate, del loro entrare in una sorta di cavità della consistenza. «Cavo» per effetto della decomposizione è appunto il suo cuore, come lo è ogni altro organo: un suo diario di scrittura/ non scrittura, registra le fasi di questo proprio decomporsi con una cura perfino scientifica, con una minuta attenzione all'azione dei diversi tipi di vermi e di insetti, ai livelli di lacerazione e trasformazione delle diverse cellule, fino alla gelida evidenza delle ossa (e del resto lo fa con cognizione di causa, presentandosi come studentessa di biologia). Quella dei morti è peraltro una sorta di comunità, dove Dorotea incontra colleghe e colleghi, bambini e perfino un feto: c'è la vecchia Anna, che cita sempre il profeta Isaia e si proietta nell'attesa di una futura resurrezione dei corpi, e non può mancare una Euridice, ironizzata per la sua condizione di scrittrice; e si susseguono curiosi messaggi con cui la protagonista cerca di entrare in contatto con coetanei conosciuti in tempi lontani, della cui morte ha avuto notizia. Oltre a frequentare la propria casa, ella riprende a tratti a frequentare il negozio dove lavorava da viva: e addirittura si innamora, da morta, di un giovane vivo che lì lavora, giungendo a inserirsi nella sua vita e nel rapporto con la sua ragazza. La sua morte sembra dilatarsi ed espandersi nel territorio, percorrendo Catania e la Sicilia, invadendo tutti gli spazi del mondo: vorrebbe entrare nella totalità del cosmo e nel suo nulla. In questo nulla si affacciano gli echi di altre tragiche morti femminili (come quelle di Whitney Houston e di Amy Winehouse) e il suo tempo si prolunga nel prossimo futuro (fino a 1 marzo 2015), a cui vengono attribuiti anche eventi realmente avvenuti nel tempo già trascorso (come un tentato suicidio di Sinéad O' Connor, che risale al 2007, ma qui viene attribuito al 5 gennaio 2015). Lo sfondo di cultura musicale indicato dai nomi ora ricordati si espande perfino in una singolare sorpresa che Dorotea, per il suo «quarto compleanno da morta», riceve dalla collega Euridice: si tratta di due biglietti aerei per andare insieme a Londra ad assistere a un concerto della morta Amy Winehouse; ecco la gita a Londra e il concerto che risuona in un canto svuotato, una sorta di musica cava, eco del nulla, tramato su «scale a chiocciola, inerpicate in spirali sempre più strette, sospese sul vuoto». In effetti tutto il libro mira variamente a far percepire l'effetto straniante che il punto di vista della morte attribuisce alle più varie situazioni dell'esistenza comune, individuale e collettiva: nell'orizzonte del vuoto, di una presenza di nulla, in atti senza risultanza («Tendiamo le orecchie, ma non c'è nulla da sentire. Tendiamo i muscoli, ma non c'è un posto dove possono portare. Tendiamo le dita, ma non c'è mai nulla che si lasci afferrare»). Pur avvicinandosi talvolta, in fondo con ambigua nostalgia della vita perduta, a comportamenti «troppo umani», in certi momenti più rilevati Dorotea arriva a esprimere con superba evidenza l'ipotesi di un esistere privato di se stesso, che si prolunga fuori di se stesso, in quello che chiama il «male dell'oggettività», che è «il male delle cose in quanto tali». Ed è vero poi che certi risvolti giocosi, certa improvvisa luminosità del disegno mostrano che comunque in questo vivere nella morte c'è qualcosa di vitale, davvero il possibile annuncio di una resurrezione. Viene allora da equiparare la voce di Dorotea a quella della letteratura, defunta da cui forse ci si può attendere una resurrezione. Oggi poi viene da equipararla all'Italia, questa morta la cui resurrezione appare sempre più improbabile.