Preghiere notturne, Santiago Gamboa
Autore: Marilia Piccone
Testata: Stradanove.net
Data: 14 febbraio 2013
“Comincerò dalla cosa peggiore, signor console. La cosa peggiore di tutte è stata la mia infanzia.” Chi parla è Manuel, una delle due voci principali del romanzo “Preghiere notturne” di Santiago Gamboa. L’altra è quella del console a cui si sta rivolgendo che è poi lo scrittore stesso che ha fatto della storia di Manuel il soggetto del suo libro e, in più, ci sono quella- sporadica, una sorta di commento fuori campo- di un Inter-neta, un trans che comunica tramite internet, e quella di Juana, sorella di Manuel, che interviene alla fine, quando tutto si sta per conchiudere o si è conchiuso, per spiegare i lati oscuri e dare il ‘suo’ punto di vista della vicenda. Perché Manuel non sa nulla, Manuel è la vittima di questo dramma che inizia a Bogotà e ha per sfondo la storia della Colombia che, per molti versi, è simile a quella dell’Argentina.
Manuel è detenuto in un carcere di Bangkok- le carceri di Bangkok hanno una lugubre fama, così come sono note le sentenze per chi viene sorpreso con un carico di droga: trent’anni di carcere o la pena di morte. E forse la morte è meglio del carcere. Ma come è possibile che Manuel avesse un carico di pasticche in valigia? Non è assolutamente il tipo, e poi era di passaggio a Bangkok, stava andando a Tokyo in cerca della sorella. Perché- come dice lui stesso al console- questa non è una storia noir ma una storia d’amore.
Era stata Juana ad illuminare la sua infanzia di bambino poco amato, era stata Juana ad incoraggiare le sue letture e i suoi studi in un ambiente famigliare meschino e ignorante. Juana aveva ammirato per prima i suoi graffiti sui muri, Juana gli aveva comperato i colori migliori. Finché Juana era scomparsa. E suo padre, che stravedeva per lei, era cambiato: dopo aver sempre sostenuto il governo di destra del presidente Uribe, si era come risvegliato a quella realtà che non aveva mai voluto vedere, era sceso anche lui in piazza per protestare contro un potere che faceva scomparire le persone, aveva innalzato anche lui i cartelli per la restituzione dei desaparecidos.
Le tre voci sono molto diverse. Quella di Manuel rivela la sua fragilità, la sua bontà e la sua assoluta innocenza, mentre la narrazione del console scrittore è più vivace, a metà tra il racconto personale, indagine quasi poliziesca fiutando una bella storia da raccontare. Perché, per salvare Manuel, per convincerlo a dichiararsi colpevole e ottenere così la condanna al carcere che poi- chissà- riuscirà a scontare magari in Colombia, il console parte lui stesso alla ricerca di Juana, va in Giappone e poi a Teheran dove è finita Juana, prigioniera dell’uomo da cui ha avuto un figlio.
La voce di Juana si affaccia sull’abisso della storia della Colombia rivelandoci un panorama di corruzione, grandi ricchezze a lato di grandi miserie, ramificazione del narcotraffico, violenze della polizia e dei paramilitari. Juana era entrata in quel mondo di proposito: voleva guadagnare soldi in maniera facile, facendo la escort, per far uscire il fratello dalla Colombia, perché potesse realizzare il sogno di studiare cinema a Parigi. Soltanto che Juana aveva sottovalutato i rischi del suo lavoro.
Il racconto di Juana è il più interessante e il più consapevole, anche se il tono piatto ne attenua la tensione. E, quando ha finito di raccontare, ci dimentichiamo che Manuel ‘voleva’ che questa fosse una storia d’amore. C’è molto amore sul fondo, è vero, ma quello che prevale è l’altro aspetto, il noir. Non possiamo trascurare il fatto che, dopo tutte le bevute, le sniffate, i festini, le violenze di cui Juana è stata testimone, ci sia una vittima innocente che non meritava proprio di fare quella fine.