Una piccola isola turistica dell'Egeo, colta nel suo inverno, con i suoi bizzarri abitanti, indigeni o ivi approdati come relitti del turismo di élite di un tempo. Una donna ancora giovane che vi si esilia, insegnando nel liceo locale, in fuga da Atene e da delusioni amorose e politiche.
Un'aura di decadenza e confusione post-moderna, su cui incombe l'antica tragedia greca. Una lingua ruvida, irriverente, essenziale, che morde abbraccia - e che subito ti trascina nel mondo della scrittrice greca Ioanna Karistiani, stimata in patria, tradotta in molti paesi, e oggi presente da noi con il suo ultimo romanzo Il santo della solitudine (traduzione di Maurizio De Rosa, e/o, 15, pp. 224).
La protagonista e io narrante, Stella, trova all'inizio conforto nella amicizia con alcune colleghe, accomunate tutte da molte disillusioni, i cui incontri serali culminano sempre in bevute e sboccate o malinconiche chiacchiere. Finché due incontri mutano il destino di Stella: quello con Simos, il dirimpettaio strano e tenero, che diventerà il suo amante, e quello con il monaco Leontios, detto "il santo della solitudine", che nel suo eremo ospita i loro incontri segreti - segreti perché la madre di Simos vive in simbiosi con il figlio, in un groviglio di odio-amore: gli ha impedito di trasferirsi sul continente per esercitare la sua professione di ingegnere così come gli vieta l'accesso a ogni donna.
Quando Simos si ribella alla madre durante un rinfresco funebre in memoria della nonna si compie la tragedia. Regna di nuovo la solitudine, ma priva del suo santo. "La solitudine non era una condanna o una pena, era un rifugio, ciascuno nel suo mondo, vero o falso che fosse".