Il mio amico Gabo: Santiago Gamboa, "che dolore vederlo stanco e malato"
Autore: Luciana Sica
Testata: La Repubblica
Data: 25 gennaio 2013
«Ho incontrato l'ultima volta Gabriel García Márquez nel marzo di due anni fa in un ristorante di Città del Messico. Che dolore vederlo stanco e malato... Sembrava star bene, ma a tratti perdeva totalmente la memoria, neppure mi riconosceva più. Di colpo era in un mondo tutto suo. Con noi a cena c'era anche Carlos Fuentes, che faceva del suo meglio per riportarlo alla realtà. Dicendogli "Gabo, ti ricordi questo? ti ricordi quest'altro?" Non saprei dire se è ancora in grado di scrivere, se potrà continuare la sua autobiografia o uscire con un nuovo romanzo». A parlare dell'autore di Cent'anni di solitudine è Santiago Gamboa, 47 anni appena compiuti, scrittore di razza, anche lui colombiano. Nei suoi ricordi non ricorre solo "Gabo", ma anche Alvaro Mutis, Roberto Bolaño... Nomi grandissimi della letteratura, amici indimenticabili per l'autore nato a Bogotà mentre esplodeva il "boom" latinoamericano. Migrante per natura e per vocazione, amato non solo in Sudamerica e in Spagna, ma anche in Francia e in Inghilterra dove quest'anno sarà ospite di "Hay-on-Way", Gamboa è l'autore di Morte di un biografo, un romanzo bellissimo ambientato a Gerusalemme e premiato con "La Otra Orilla". È uscito qualche tempo fa da e/o e oggi è la stessa casa editrice a pubblicare Preghiere notturne, la storia di un amore grande, puro e impossibile tra un fratello e una sorella nella Bogotà presieduta da Alvaro Uribe negli anni tra il 2002 e il 2010. Un romanzo che conferma l'abilità narrativa e la densità letteraria di Gamboa.
Quando ha conosciuto García Márquez?
«Nel settembre del '95 a Biarritz, in un festival. C'era anche Alvaro Mutis. Fu un fotografo a presentarci. Appena gli fece il mio nome, Gabo mi disse: "Sto leggendo un tuo libro". A me sembrò di svenire. Era il mio primo romanzo, Páginas de vuelta... "Nei prossimi giorni saremo a Parigi, ti chiamo". Non ci credevo, ma una mattina fu la sua voce che sentii al telefono, un'emozione fortissima. Da allora ci siamo sentiti e visti spesso».
L'ultima volta di che avete parlato?
«Dell'India... Gli ho chiesto se c'era mai stato, e lui mi ha detto che sì, c'era stato nei primi anni Ottanta con Fidel Castro. E mi ha raccontato una storia bellissima: Indira Ghandi aspettava il leader cubano e Gabo preferì non scendere subito dall'aereo per evitare il ricevimento ufficiale. Vedeva però tutto dal finestrino e a un certo punto si accorse che lei correva verso la scaletta dell'aereo chiedendo ad alta voce "where is García Márquez?". Così la signora Ghandi si presentò a lui, parlarono a lungo in francese, ci fu subito grande simpatia... "Tanto che Indira mi disse: torna quando vuoi, sarò io ad accompagnarti in un viaggio per tutto il Paese... Certo che lo farò, puoi contarci. Ma — concluse Gabo, con le lacrime agli occhi — dopo un po' di tempo l'hanno uccisa, e io in India non ci ho messo più piede"».
"Gabo" è stato generoso con lei, ma Vázquez Montalbán non avrà esagerato quando l'ha definita "il più grande scrittore colombiano dopo García Márquez"? Non è nato a Bogotà anche il suo amico Mutis?
«Ma quella di Manuel è stata solo una battuta, una cosa carina che ha scritto su un giornale tedesco, poi ripresa dai miei editori... Quanto a Mutis, in agosto avrà 90 anni, è un po' più in età di Gabo che in marzo ne farà 83. Ma in ogni caso Alvaro èun tale maestro, e io ho avuto sempre una così grande ammirazione per lui... È un uomo traboccante di umanità e di simpatia, con un inesauribile senso dell'umorismo. Ricordo una volta a Parigi: avevo pagato un albergo, senza poi ricordarne né il nome né l'indirizzo, e passai un'intera giornata con lui a cercare di ritrovarlo. Alla fine eravamo esausti, e mi disse: "Tu sei un orrido plagiario! Queste cose succedono a me, non possono succedere a te"».
Come sta ora Mutis?
«Non si fa più vedere, non esce di casa, è vecchio... La perdita della figlia è stato un colpo tremendo, non si è più ripreso».
Un lutto terribile per lei sarà stata la morte di Bolaño...
«Sono passati quasi dieci anni da quel maledetto luglio, e io sento ancora nitidamente la voce di Roberto. Quando l'ho conosciuto, non era affatto il mito che è oggi, ma era già una leggenda per gli scrittori sudamericani, l'autore che noi tutti leggevamo con devozione. Aveva presentato un mio libro a Barcellona. Poi, nel '99, io vivevo a Roma e mi scrisse: "Vengo lì, cercami un albergo". Il suo arrivo era legato alla stesura di Una novelita lumpen, l'ultimo libro pubblicato in vita (Un romanzetto canaglia, Sellerio, ndr). Ricordo il nostro primo appuntamento a Campo dei Fiori, era come se avessi dovuto incontrare Thomas Mann. In seguito gli chiesi: "Dove vuoi andare nel weekend?". E lui: "Civitavecchia"... "Ma perché lì?". "Perché Stendhal è stato console a Civitavecchia". Ci andammo, ma non si guardava affatto intorno. Camminava con gli occhi fissi a terra, e parlava parlava... Quasi esclusivamente del suo grande libro: 2666».
Com'era Bolaño?
«Era affettuoso, ma a tratti diventava freddo, tagliente, anche crudele. A volte invece prendeva le difese delle persone e delle cose più indifendibili. Era fatto così. Ma poteva essere anche molto spiritoso. Una volta mi chiamò da Venezia. "Che bello che sei lì", feci io, un po' banalmente. E lui: "Per niente! Mio figlio rompe con i suoi problemi adolescenziali, mia moglie tossisce come una tisica, e io sono chiuso in bagno a cercare di scrivere una poesia". Avevo una tale adorazione per Roberto, che sapere di essere letto da lui era quasi imbarazzante per me»
La passione per la letteratura è sempre stata vistosa nei romanzi che lei ha scritto — anche in Perdere è una questione di metodo, quel noir di successo diventato poi un film di Cabrera... Qui, in Preghiere notturne, è condivisa dai suoi personaggi: un fratello e una sorella. Il piacere di leggere, ma anche per l'arte, il cinema, è un loro antidoto contro l'infelicità?
«Inseguono una qualche forma di bellezza, come unico filo di speranza. Manuel e Juana sono due ragazzi fragili e fortissimi, oppressi da un clima sociale violento e dalle grettezze della loro famiglia. Lui è un giovane filosofo dal temperamento artistico, ma finirà malissimo in una storia di droga. Lei diventa una escort, decide lucidamente di prostituirsi per danneggiare i suoi avversari politici e soprattutto per cercare di salvare il fratello... Cercano di dare un senso alla loro vita, di proteggersi, di stare vicini. Sperano di andare lontano, insieme».
Senza riuscirci... Quel filo di speranza è troppo esile?
«Forse dipenderà dalla mia età che avanza... L'allegria della giovinezza, nella migliore delle ipotesi, scivola in un'elegante malinconia. Non a caso sempre più spesso mi rifugio in una casa di campagna, vicino a Roma».
Il romanzo invece riflette il suo spirito nomade. È ambientato a Bogotà, ma poi la storia — anche ricca di suspense — si svolge tra Delhi, Bangkok, Teheran, Tokyo...
«Per me ormai sono luoghi dell'anima. A Delhi per un paio d'anni ho fatto anche il console, lo stesso mestiere del terzo personaggio del mio libro. E comunque, sì, ho sempre viaggiato moltissimo. Ho studiato a Madrid e ho vissuto a lungo a Parigi, ho scritto reportage dalla Bosnia, dall'Algeria, da Pechino per tanti giornali come il Viajero del País... Per qualche ragione ho bisogno di ritrovarmi nella stanza anonima di un albergo in un luogo sconosciuto. Sembra un'immagine romantica, ma io non posso farne a meno, resta la mia dimensione ideale per scrivere».