Lamore o è molesto o non è. Il romanzo secondo Elena Ferrante
Autore: Viviana Scarinci
Testata: La Società delle Letterate
Data: 30 dicembre 2012
In un’intervista rilasciata rigorosamente via e-mail al quotidiano Repubblica, nel settembre 2012, in occasione dell’uscita di Storia del nuovo cognome (seconda parte dell’Amica geniale), dopo aver parlato delle contingenze legate a queste due ultime prove narrative, in chiusura Elena Ferrante spiazza vecchi e nuovi lettori. Parafrasando L’amore molesto, il suo primo romanzo, sottolinea una continuità tutt’altro che scontata tra l’origine e l’attualità della sua scrittura.
«Una storia d’amore è sempre la storia di uno squilibrio» scrive in quelle poche righe conclusive, in cui indica una visione dell’eros ben lontana dalle semplificazioni che ne vorrebbero come definizione principale la voluttà. L’eros viene descritto come la pulsione destabilizzante di qualsiasi normativa, e capace, attraverso la rottura che impone, di qualifiche ulteriori, collaterali, a volte decisamente meno lacunose della norma entro cui erompe.
«Nei libri che ho scritto, e anche in questo secondo volume dell‘Amica geniale, l’amore o è molesto o non è» dichiara l’autrice, ponendo quasi l’obbligo di chiedersi quanto l’amore, nella sua qualità di molestatore dell’ordine, sia un movimento fondamentale nell’ambito della ricerca della propria identità. Se questa è una possibile chiave di lettura dell’intera opera di Elena Ferrante, come lei stessa sembra suggerire, ciò rende necessaria un’interrogazione che risalga tutta la sua scrittura, come percorrendo un fiume a ritroso, dalla foce alla sorgente, in un traversamento di paesaggi diseguali e spesso pericolosi, per chi si serva della propria piccola barca per questo viaggio.
L’amica geniale, 2011
L’amica geniale inizia con una sparizione. E prosegue con una cantina in cui viene gettata una bambola mai più ritrovata. La sparizione è il lancio di un sasso che per il momento si perde in una sospensione che serve all’autrice per creare un affresco paradossalmente realistico, un intreccio che rovescia come un guanto le narrazioni precedenti tutte imperniate sull’altro tema che fino a La figlia oscura, il libro precedente in ordine di tempo, ha interessato profondamente ogni protagonista dei romanzi di Elena Ferrante: l’isolamento.
In un’intervista per Il Messaggero del 24 gennaio del 2002, rilasciata a Goffredo Fofi, l’autrice accosta la parola isolamento alla definizione di luogo senza comunità. L’amica geniale pare in questo senso, già dalla prima lettura, un rovesciamento volontario, immediatamente successivo ai romanzi che lo precedono.
In questo romanzo per quanto la voce sia sempre quella di un io-narrante, la storia riguarda un’amicizia tra due donne, una sororanza che con tutte le sue contraddizioni consentirà l’unico scambio tra persone che veramente infrange l’isolamento, blandendo la ferocia di una solitudine che come prima cosa ferisce se stessa.
Lila è una sorta di brutto anatroccolo che con l’adolescenza troverà una carica sensuale talmente evidente e così sfacciatamente collusa con la sua personalità, che sul finire del romanzo sembrerà essere la causa delle sciagure che si vanno ad addensare sul suo capo di ragazza. Lenuccia la guarda, soprattutto. E lo sguardo dell’amica infrange l’isolamento di Lila. Lenuccia sembra che debba lavorare duramente per ottenere tutto ciò che in termini di piccola gloria individuale spetta di diritto a Lila, al talento di Lila, alla bellezza di Lila. La Ferrante descrive la vicenda riferendo di una adolescenza, che nei libri precedenti compariva solo sotto forma di voragine, oscurità densa con cui è impossibile dialogare. Ne l’amica geniale, l’argomentazione piana e volutamente ingenua consente invece all’autrice di calarsi nelle credenze comuni che riguardano questa fase delle età e che l’unicità di ogni vicenda adulta, come nel proseguo del libro, sbugiarderà puntualmente.
Anche in questo frangente l’eros è l’elemento destabilizzante e rivelatore. Sia attraverso le passioni che Lila suscita e di cui sembra finirà vittima, sia attraverso lo sguardo profondamente accostato e accorto che Lenuccia le riserverà per sempre. Scrive Marguerite Yourcenar sull’eros: «Se un essere solo anziché ispirarci tuttalpiù irritazione, piacere o noia, ci insegue come una musica e ci tormenta come un problema, se trascorre dagli estremi confini al centro del nostro universo, e infine ci diventa più indispensabile che noi stessi, ecco verificarsi il prodigio sorprendente, nel quale ravviso ben più dello sconfinamento dello spirito nella carne che un mero divertimento di quest’ultima». Questo sconfinamento dell’eros nella sua qualità di arbitro allo stesso modo pare capace sia di scongiurare che di imporre l’isolamento. Di questo sembra nutrirsi lo sguardo di Lenuccia su Lila. E per renderlo visibile, tutto questo, Elena Ferrante, più che dipingere ancora un ritratto deciso e sofferto di un volto isolato, aveva bisogno di affrescare una comunità su un intero soffitto.
La figlia oscura, 2006
La figlia oscura pare consista in una fase transitoria, e che di questa rispecchi l’indeterminatezza ma anche l’imminente apertura tra due mondi da prima separati. Se il romanzo ancora conserva ed estremizza i temi dell’isolamento, della maternità non idealizzata, dell’eros della madre che governa, in questo come negli altri romanzi di Elena Ferrante, molto più di un fantomatico istinto materno, i destini di intere famiglie, d’altro canto già il libro si schiude alla coralità.
La narrazione che Leda – l’io-narrante -dipana, riguarda una piccola comunità familiare, ovviamente di origine campana, stretta intorno al personaggio di Nina, una giovane e bellissima madre che somiglia molto alla protagonista dei due romanzi che seguiranno. Nina sembra essere l’abbozzo preparatorio di quella Lila, di cui si avrà modo di sapere ogni cosa, dai due romanzi del ciclo L’amica geniale. Da qui in poi l’autrice opera un cambiamento di prospettiva che dall’introspezione del singolo aprirà verso una visione introspettiva della comunità cui quel singolo non smetterà mai di appartenere. Ma l’introspezione di una comunità di cui un membro per necessità, virtù o sfortuna, si faccia carico è un’operazione psichicamente complessa e in questo caso apportatrice di dolo.
Leda evoluta, emancipata, coltissima, del tutto inaspettatamente si trova a condividere la spiaggia con un nucleo familiare in odore di camorra, molto simile a quello delle sue origini. Soprattutto Nina pare il ricettacolo di tutto ciò di cui a torto o a ragione Leda si sente privata dalla nascita, ed è il fulcro introspettivo che porterà Leda all’azione che sta al centro della trama di questo libro. Nina pare, senza sforzo, molto bella e elegante, e per questo motivo cozza irreparabilmente con la rozzezza del suo clan. Nina è anche una madre “spontanea”, ossia una di quelle fortunate creature il cui istinto materno, apparentemente, sembra favorire un rapporto congruo con la prole. Non così Leda il cui rapporto con le figlie ormai grandi è deregolato da insicurezze, gelosie, stanchezze.
Accade quindi che la figlia di Nina perda la sua bambola preferita e che Leda trovandola, la tenga per sé anziché restituirla alla bambina, che senza la sua bambola non ritroverà in nessun modo la serenità, e con lei la perde tutto il clan. La bambola è un simbolo potentissimo. Dal furto della bambola in poi, questa diventa una sorta di catalizzatore di fole in cui non si avverte più una giusta distanza con l’attualità dei fatti, e ci si avvia, seguendo i pensieri di Leda, verso ricordi e sostituzioni che approdano presto alla patologia.
Non credo sia un caso che uno dei primi gesti compiuti nel libro immediatamente successivo, L’amica geniale, siano due bambine che si scambiano le bambole predilette, cosicché una delle due possa compiere il primo tradimento ordito e subito, una sorta di iniziazione all’oscurità della condizione femminile, gettando la bambola dell’amica nel buio di uno scantinato da cui non verrà mai più rinvenuta.
Su l’Unità dell’8 settembre 2002, in occasione di un’intervista rilasciata a Stefania Scateni che esplicitamente le chiedeva un parallelo tra I giorni dell’abbandono e Una donna spezzata di Simone De Beauvoir, Elena Ferrante risponde: «Ho usato quel libro nella storia di Olga, così come avrei potuto usare Didone abbandonata che erra per la città fuori di sé (…) In realtà Olga è una donna di oggi che sa di non dover reagire all’abbandono spezzandosi». Qui sembra che la presa di distanza coincida con l’ammissione e il superamento di un’eredità. Una donna spezzata è il libro in cui Simone De Beauvoir è meglio riuscita a sintetizzare narrativa e saggistica, in un racconto che concerne in primo luogo l’ideologia da cui è ispirato. La De Beauvoir compose una sorta di manifesto che allora e per diversi anni costituì, come molti sanno, oltre che una pietra miliare della letteratura femminile, un vero e proprio monito che ha esortato più di una generazione di donne alla costruzione di quella Stanza tutta per sé di cui Virginia Woolf aveva messo per iscritto l’esigenza.
Un’ipotesi simile è ventilata anche da Antonella Agostino in merito ai tre romanzi della Ferrante L’Amore molesto, I giorni dell’abbandono, La figlia oscura. Qui la Agostino parla addirittura di «un corpus quanto mai omogeneo, tanto da potersi leggere come un unico romanzo” che ha per tema la perdita dell’amore, che come esordisce fin dal titolo del suo saggio la Agostino, avrebbe la responsabilità di ridurre l’identità femminile a una “frantumaglia”, parafrasando un celebre saggio di Elena Ferrante. Per quanto Antonella Agostino circostanzi in quel senso un’analisi ricca di spunti e suggestioni, tuttavia I giorni dell’abbandono non credo si sia mai voluto costituire di per sé come un nuovo “documento” che riguardi il lutto amoroso, secondo un’ipotesi di maggiore modernità rispetto a un tema che già Virgilio nell’Eneide tratta negli stessi termini.
I giorni dell’abbandono (2002)
I giorni dell’abbandono non costituisce un unico romanzo con gli altri due, né prosegue un manifesto pure caro e tuttora indispensabile a molte donne. Questo libro è bensì l’inizio di una ricerca nel proprio corpo, la ricerca di una figura di se stessa più adatta all’amore, di quella della madre che si è diventata. Sì, Olga viene abbandonata, coi figli, con il cane, con le responsabilità che dovrebbero legarla maggiormente alla realtà. E che per lei producono l’effetto contrario, cioè fanno cadere del tutto i pochi nessi che aveva con la vita reale. L’isolamento gioca anche in questo libro uno ruolo decisivo. Non solo la lontananza dalla comunità cui Olga appartiene, ma anche la rottura precedente con tutto ciò che Napoli e la napoletanità rappresentano per la protagonista, tanto da riallocare programmaticamente la sua persona nel luogo acquisito, cioè la camera stagna del suo matrimonio, in una sorta di cancellazione di ogni aspetto ancestrale di sé, armata da un ribrezzo autoinflitto così radicale che la induce come prima cosa alla non realtà della sua condizione.
Ma non è solo questo il punto. Il punto è ancora l’eros, l’eros ferito della madre che va a infoiare una furia secolare riproposta attraverso un passato personale per nulla scomparso malgrado i tentativi di cancellazione. Un passato generazionale e universale che può rendere una donna la stessa dea malvagia cui tradizionalmente viene attribuita ogni turpitudine perché è soprattutto, e come prima cosa, non-madre nell’agire.
La molestia amorosa non è quella che Olga infligge ai due amanti picchiando lui e mancando per poco lei, né quella che compie nei confronti del musicista imponendogli un rito sessuale dimostrativo, incarnando il suo dolore in una furia vendicativa che finisce per dilaniarla in modo ben peggiore di quanto possa fare ogni azione inferta agli altri. È l’oltraggio antico che le gravidanze compiono, la molestia amorosa difficilissima da compensare e comprendere, sul piano realistico della femminilità.
E’ il deprezzamento della sua carne che ha reso insopportabile a Olga la sostituzione che il marito ha compiuto del suo corpo di madre con quello di una giovane sicuramente portatrice di un corpo di figlia. Il sacrilegio più intollerabile non è testimoniato dall’abbandono, ma da un episodio apparentemente secondario legato agli orecchini della nonna di lui. Gli orecchini fanno parte degli “ori” di famiglia prima donati a Olga moglie e madre, poi dopo l’abbandono, a lei sottratti, per essere dati alla giovane amante, come segno di una “reimpostazione” della continuità familiare ordita da un passaggio psicologico dell’immaginario maschile del tutto sfasante.
Sul piano letterario I giorni dell’abbandono costituisce una prova superba di come la letteratura attraverso una discesa accortissima nella colloquialità, nel turpiloquio (niente affatto pretestuoso ma anzi sintomatico di una sorta di riscossa corporale) riesca ancora ad essere l’ostensione pura e visibile della contemporaneità. Non è un caso che I giorni dell’abbandono insieme a Storia del nuovo cognome sia uno dei pochi i romanzi di Elena Ferrante in cui l’improperio viene riportato per via diretta, e non riferito in quanto malaparola, come spesso capita invece nell’Amore molesto.
Nonostante tutto ciò Olga ce la farà, si ripiglierà il corpo, il sesso, i figli, il senso della realtà, la libertà di essere se stessa, e lo farà forse grazie anche al fatto di poter annoverare Virginia Woolf e Simone De Beauvoir tra le sue letture di ragazza, anche se questo Elena Ferrante non lo dice.
L’amore molesto, 1992
Cercherò di non ripetermi nelle prassi più o meno suggestive di quanto ho letto in questi anni riguardo un libro così importante come L’amore molesto. Non parlerò del corpo delle madri, così difficile da vestire senza ingolfarlo di un ruolo che non le dimentichi come donne. Anche se uno degli elementi principali della trama de L’amore molesto riguarda proprio due abiti in dono e un vecchio tailleur più volte rivoltato. Né parlerò della frattura che la malapianta del dolore provoca affondando la radice nelle migliori intelligenze disgregandole, innescando un tempo alienato in cui la vita si congela. Elena Ferrante tutto ciò l’ha raccontato ne L’amore molesto e poi lo ha limpidamente spiegato ne La frantumaglia meglio di chiunque altro.
Vorrei partire invece da un altro punto di vista rispetto al libro, pure suggerito dall’autrice anche se in merito a un discorso collaterale. Scrive Elena Ferrante in un passaggio particolarmente significativo de La frantumaglia: «Preferisco le persone che hanno la consapevolezza dell’ambiguità morale di ogni gesto e si sforzano con accanimento di capire cosa fanno realmente di buono e di cattivo a sé stessi e agli altri». Leggendo non ho potuto fare a meno di pensare al personaggio di Delia, la protagonista de L’amore molesto . Delia parte alla ricerca della sua storia personale non rimossa ma affievolita e sottaciuta per eccesso di intensità. Un eccesso su cui l’istinto di conservazione interviene, allertato prima della stessa Delia da una reale impossibilità, da parte della bambina che era, di reggere lo sguardo sul vissuto di quegli anni.
Scrive ancora la Ferrante del dovere di “veglia” di “vigenza” sugli episodi fondamentali delle loro esistenze, cui le donne della generazione di Delia, ma anche di Olga ne I giorni dell’abbandono, si sottopongono a differenza delle generazioni di donne che le hanno precedute. Arrivata alla terza lettura de L’amore molesto mi è parso che il personaggio di Delia, fosse accostabile soprattutto a questo accanimento verso il capire, per cui la morale, l’etica, assumono un carattere di ortodossia insufficiente a qualsiasi ritrovamento di sé, dentro una vicenda annosa per lo più re-inventata, come la memoria non può fare a meno di agire, sui ricordi che se ne abbiano.
L’amore molesto è la storia di una donna non più giovane che raggiunge Napoli, sua città d’origine, da un’altra città dove vive da molti anni, per chiarire le cause della morte di sua madre, annegata, senza che se ne sappia altro. In questo viaggio entra in gioco tutto un repertorio femminile desueto e desertico in cui Delia, non la madre, si ritrova imprigionata da anni per reazione. Per Delia da sempre, l’eros coincide con un congelamento del desiderio, una soppressione della femminilità che genera impossibilità di relazione. Il giudizio continuo e nevrotico che il personaggio Delia riserva alla sensualità della madre, esiste perché da figlia è educata a quest’ottica dal giudizio di suo padre. Pensare la sensualità materna attraverso questi accenti, mortifica la propria.
Amalia, la madre, è l’incarnazione perfetta di quella ambiguità morale che risulta dall’accanimento a perpetrare soprattutto se stessi. In modo diametrale e opposto, il personaggio di Delia, la figlia, suggerisce perfettamente lo sforzo di sorveglianza che la ricerca di sé e dell’altro impone.
Il viaggio si rivela una ricerca non di Amalia e delle cause della sua morte, ma di Delia scomparsa, “smarginata”, per utilizzare un termine caro alla Ferrante il cui significato verrà meglio definito nell’ultimo suo libro Storia del nuovo cognome edito quest’anno, più di vent’anni dopo L’amore molesto. Smarginare significa perdere succhi e contorni fino alla desertificazione, perdere il valore della propria esistenza attraverso un cedimento delle linee che attestano quella demarcazione visibile agli altri che è il corpo. Certo questo accade con il dolore, che riconnette a una sorta di cocenza arcaica e che impatta l’immobilità femminile nel gestare oltre che i possibili figli, se stesse come, di riflesso.
A Delia accade di «lottare contro l’intonaco, contro tutto ciò che armonizza cancellando» con ciò accettando il costo di un’inquietudine costante. «La prima persona, una volta che c’è non si rassegna a diventare terza» scrive ancora la Ferrante, ma cosa accade, verrebbe da chiedersi a questo punto, a chi è nato terza persona e non prima? Costretto rispetto a sé a fare costantemente i conti con una Lei da far agire in propria vece.
Mario Martone chiude la sua interpretazione cinematografica de L’amore molesto con Delia che quando le viene chiesto chi fosse da uno sconosciuto, al ritorno dal suo viaggio, risponde: «Amalia». Che sia il segno di una liberazione o di un definitivo cedimento della sua identità non è dato sapere e forse neanche importa.
Storia del nuovo cognome, 2012
Leggendo Storia del nuovo cognome dopo aver letto e riletto tutti i libri di Elena Ferrante, si incorre in continui errori di interpretazione e relative retromarce, dati dalla velocità della trama, sebbene si tratti di un tomo voluminoso, il più lungo dell’autrice. Si ha l’impressione alla lettura di una corsa spericolata dentro una Millecento, ripescata in un non so quale museo dell’auto, spinta a una velocità che può sostenere solo un SUV, con la differenza che si sta dentro l’abitacolo di una delle prime auto prodotte in Italia.
L’affresco di un’intera comunità, iniziato con L’amica geniale, pare restringere ancora una volta il campo non su due donne, ma su una. Per quanto l’io-narrate sia sempre quello di Lenuccia, la vicenda centrale del romanzo resta ordita dalle gesta di Lila, di cui la narrazione consente anche approfondimenti di natura psicologica grazie all’escamotage narrativo della consegna di alcuni diari di Lila a Lenuccia.
È ancora eros il fatto e il misfatto che genera nella vita di Lila la galassia di gravitazioni rette dalla sua sensualità. Quasi tutto il romanzo concerne le vicende della talentuosa e sfortunata fanciulla che ne combina di cotte e di crude, e di fatto tace su Lenù, Elena. Lila si sposa a sedici anni, tradisce ed è tradita, viene picchiata e si vendica, dopo aver raggiunto una condizione economica opulenta grazie al matrimonio ridiventa povera e con un figlio, non del marito, a carico, imbastisce una relazione con l’ennesimo uomo, il cui ruolo tuttavia sul finire del libro risulta alquanto misterioso. Di lei, anche grazie ai diari, sappiamo tutto. Ma davvero ci importa sapere di Lila? Dov’è Elena in quegli anni oltre che nella determinazione e nella solitudine che racconta?
«C’è voluto tempo per andare oltre, c’è voluto che i giochi fossero sostituiti dal soliloquio, un teatro mentale fitto di parvenze che è durato negli anni, domanda e risposta» scrive la Ferrante, a proposito delle origini della coscienza del suo precocissimo legame con la scrittura. «La sintassi dell’apparenza lascia decidere alla bambina se andare a morire nelle fauci della bestia oppure no. Ma io sapevo che ci sarebbe andata, era troppo felice di avere un compito preciso», scrive ancora l’autrice, riferendosi al potere che la sintassi ha nel creare indirettamente impressioni così persistenti da sembrare dei veri e propri compiti rivolti a chi si pone alla lettura.
Le centosettantotto pagine de L’amore molesto sono il compimento di quella sintassi dell’apparenza che spinge il lettore verso un compito preciso senza che questi se ne avveda, lungo un tempo la cui dialettica con chi lo misura, non è onirica ma realistica, come possono esserlo i passaggi più oscuri di una notte terribile e senza assistenza. Le quattrocentosettanta pagine di Storia del nuovo cognome invece costringono a una corsa a rotta di collo lungo una giornata apparentemente assolata, le cui ombre sono appena visibili dietro gli avvenimenti orditi attorno a una sola delle protagoniste, l’unica apparentemente destinata a “fare” nel bene e nel male la storia, a esserne attrice.
Tutto il romanzo è disseminato di riferimenti molto precisi che riguardano questa fondamentale differenza tra due tipologie umane, Lila e Lenuccia: colei che compie e colei che osserva, colei che fa e colei che scrive. Lila si comporta in modo che le cose accadano, la sua passione, il suo coraggio la spingono entro una vita che, a sua immagine, diventa tempestosa e ricca di avvenimenti avvincenti. Ma forse sono avvincenti solo agli occhi di Lenuccia, che è un personaggio cui pare non accada nulla di speciale: quando sembra che voglia perdere la verginità con Antonio, questo non accade, mentre accade con il padre del ragazzo di cui è innamorata, con tale e tanta naturalezza, che tra le righe non si avverte nessuna scabrosità. Scabrosità che forse dovremmo avvertire nella descrizione dei convegni erotico amorosi che Lila ordisce alle spalle del marito e dei suoi soci in affari nel cesso di un negozio di scarpe. Ma anche qui non si avverte.
Per tutta la durata del libro di cui Lila è l’indiscussa protagonista, non ho fatto che chiedermi dove fossero il cuore e il corpo di Lenuccia, di cui si ha pochissima notizia, anche quando per esempio si fidanza con un ragazzo che non ama ma che finalmente le compra occhiali che non le mangino il viso. Cercavo il cuore di Lenuccia, scuotendo la testa con rabbia, quando non reagisce ai soprusi di Lila, forse involontari ma forse no, o quando vinta dell’insicurezza personale e sociale, si promette in moglie al filologo Arioti. E al colmo della mia deprecazione di lettrice mi sono accorta di essere caduta nell’ennesimo tranello che Elena Ferrante ha inventato, come ha fatto in ogni libro, senza tradire se stessa … ancora una volta, ha lasciato decidere alla bambina se andare a morire di paura gettandosi nelle fauci della bestia, pur sapendo che ci sarebbe andata comunque, felice che il libro che sta leggendo le desse il compito di tornarci.
Molto si è parlato di Elena Ferrante, oltre che dei suoi romanzi. Molto, forse troppo, si è detto della sua scelta di non esistere in quanto persona pubblica nel mondo dei media e dell’editoria salvo che attraverso i suoi libri. Ciò ha fomentato una serie di ipotesi sulla sua vera identità, sul fatto che i libri con firma Elena Ferrante, fossero in realtà di autori diversi, o di un uomo. Elena Ferrante talvolta è stata trattata come se fosse l’unico corpo mancante all’interno delle sue trame. Il corpo dell’autrice Ferrante, rispetto a quanto si è scritto in merito, pare sia chiamato a convalidarne la scrittura, costituendo fisicamente, attraverso la fiction che comporta l’esposizione mediatica, il personaggio più importante di quel poderoso romance, che è la sua opera letteraria.
Al di là dell’importanza relativa che assume la vera identità di una persona o di un gruppo di persone rappresentato da uno pseudonimo, ne La frantumaglia si può leggere un’opinione molto precisa dell’autrice in merito alle logiche che regolano in senso lato l’editoria contemporanea: «i poteri grandi e quelli piccoli non temono le belle parole, nemmeno quelle brutte. Anzi spesso ne fanno libri per la loro editoria. E delle argomentazioni serrate, delle similitudini, delle metafore ricavano profitto. La proprietà si appropria delle virgole, dei punti, dei sospiri, del rammarico, dei pallidi ricordi». Questa posizione, certo estremizzata narrativamente, ci parla di una sorta di pericolo relativo all’appropriazione indebita e strumentale da parte di un “potere occulto” ma estremamente tangibile, rispetto le prerogative di cui la grande letteratura e poesia da sempre hanno invece difeso la libertà. «Non dover apparire» scrive ancora l’autrice, «genera uno spazio di libertà creativa assoluta». Qui si crea un nesso, a mio avviso risolutivo, quello che metterà prima o poi a tacere la ricerca nel corpo autoriale più che nei testi di Elena Ferrante. La dipendenza verso la fiction di se stessi che comporta la continua esposizione mediatica, ha consentito la mercificazione più straniante che si sia mai potuta verificare a livello collettivo, quella che consente a poteri piccoli e grandi il loro terreno manipolatorio più redditizio. Elena Ferrante o chi per lei, è stata forse la prima grande scrittrice del nostro tempo che sia presa la libertà di lasciarlo intendere fattivamente.