Niente è come sembra: quando un carabiniere fa sabotaggio
Autore: Tersite Rossi
Testata: Megachip
Data: 27 novembre 2012
“Nelle famiglie di rispetto, una volta, ai bambini appena nati si mettevano vicino un coltello e una chiave. Quegli oggetti sono dei simboli. Il coltello rappresenta gli uomini d’onore, la chiave gli sbirri. Se il bambino tocca per primo il coltello, sarà un uomo d’onore. Se tocca la chiave sarà uno di voi”. Nino Calabrò, pezzo grosso della ‘ndrangheta, si rivolge al tenente Rocco Liguori, ma, con quell “uno di voi”, sembra quasi si rivolga a noi che leggiamo. E la cosa un po’ ci inquieta. Nino e Rocco sono cresciuti insieme nello stesso paesino calabrese, ma poi i loro destini si sono drasticamente separati, l’uno coltello in mano, l’altro chiave. Per poi tornare a incrociarsi, fatalmente, dopo molto tempo, dopo cento pagine. Quelle frapposte tra la prima del romanzo di Roberto Riccardi, “Undercover – Niente è come sembra”, in cui l’autore ce li descrive bambini, e la pagina 106, in cui i due si rincontrano, a Tangeri. Devono favorire l’ingresso di sette tonnellate di cocaina in Italia. Ma solo uno di loro, Nino, fa sul serio; l’altro, Rocco, agente sotto copertura che si finge sbirro corrotto, lo vuole semplicemente incastrare e sbattere in galera.
O forse no. Perché, come recita il titolo, niente è come sembra, nel romanzo di Riccardi.
All’apparenza, infatti, ci troviamo di fronte a una vicenda che mette di fronte, semplicemente, buoni contro cattivi. Guardie e ladri. Legge e crimine. Ma poi – nota di gran merito, da un punto di vista letterario – il confine tra bene e male pian piano si assottiglia.
I buoni non sono eroi tutti d’un pezzo, ma esseri umani che sbagliano e restano vittime delle loro debolezze. Come Rocco. “Quando ho scelto questo mestiere – confessa verso la fine della vicenda, a noi lettori prima che a Rosario, la donna del boss che si è innamorata di lui (altro personaggio che trascende il ruolo assegnato e confonde le acque) – i miei occhi vedevano un mondo in bianco e nero: il bene da una parte, il male dall’altra. Poi ho toccato la vita. Quella scritta con la carne e il dolore, la miseria e la paura. Adesso, nell’eterna partita a scacchi giocata dal destino, non saprei dove collocare nemmeno una pedina”.
Niente è come sembra, nel romanzo di Riccardi. Nemmeno il finale. All’apparenza lieto. Ma poi è sempre Rocco, l’eroe, l’apparente vincitore, a dire infine: “Dove porta la strada non lo so, ma è lì che vado. Da qualche parte c’è un altro me stesso che mi aspetta, per gettare alle ortiche questa tristezza”. Ma come: non ha vinto, il tenente Liguori? E non ha perso, il crimine? O è ancora in forze e pienamente in partita, come lasciano supporre le ultime righe, che s’imprimono inquietanti nella mente del lettore, lasciandogli addosso un’incoerente sensazione di sconfitta?
Forte di questa rotondità e complessità, oltre che di una sapiente miscela di ritmo, linguaggio asciutto e varietà di personaggi, trame e scenari, il romanzo di Riccardi svolge con efficacia la missione SabotAge assegnatagli dall’appartenenza all’omonima collezione delle edizioni e/o, diretta da Colomba Rossi e curata da Massimo Carlotto. Il sabotaggio, in “Undercover – niente è come sembra”, avviene semplicemente informando. Nel segno della migliore narrativa d’inchiesta, Riccardi utilizza l’espediente narrativo come cavallo di troia per far passare al lettore informazioni che non troverebbe normalmente sulle prime pagine dei giornali o nelle scalette dei telegiornali. O che, anche le trovasse, non riuscirebbe a focalizzare adeguatamente, a causa del miscuglio di fatti rilevanti e inezie che, nel pessimo giornalismo mainstream dei nostri giorni, le soffoca e occulta, mettendo il pubblico nella triste condizione di essere informato di tutto senza conoscere niente.
Nel romanzo di Riccardi, invece, il largo respiro della vicenda, aiutato dalla potenza accattivante della forma narrativa, consente di vedere, focalizzare e conoscere. Che cosa? Il funzionamento della prima organizzazione criminale al mondo, innanzitutto. “I calabresi sono intelligenti, si muovono sottotraccia come piante dalle radici sotterranee”. L’appoggio accordato loro dagli insospettabili. “Abbiamo entrature nelle banche. Persone che ci avvisano se un negoziante va in sofferenza, così possiamo intervenire prima degli altri”. “Le banche sono importanti per vari scopi, primo fra tutti il riciclaggio di denaro”. E poi squarci su risvolti della medaglia che nessuno conosce, come lo sfruttamento della manodopera clandestina da parte delle ’ndrine: “Trasportano la nostra merce per pagarsi il viaggio verso l’Europa. Ombre desinate a svanire all’arrivo nella terra promessa, disperati che non siederanno mai in tribunale sul banco dei testimoni”. O ancora il funzionamento assassino delle haciendas sudamericane in cui si produce la coca che poi la ’ndrangheta rivende in giro per il mondo facendo montagne di soldi: una sottotrama del romanzo, quella che ha come scenario l’hacienda del narcotrafficante colombiano Carlos Romero, molto ben congegnata, da cui emerge con forza la figura – forse il personaggio più riuscito – di Pedro, il raspachin (giovane raccoglitore di coca) assetato di vendetta nei confronti del padrone, che ha ridotto in schiavitù prima il padre, poi lui.
Tutte queste informazioni e questi pezzi di realtà arrivano, prima che dallo scrittore Roberto Riccardi, dal colonnello dell’Arma Roberto Riccardi. E’ grazie a questo suo ruolo e alla sua esperienza professionale diretta, prima ancora che alle sue abilità narrative, che il lettore ha la frequente sensazione di essere egli stesso un agente undercover infiltrato dentro il cuore del crimine. E, a ben vedere, è proprio il vissuto in prima persona dell’autore il valore aggiunto dell’opera. Carabinieri che scrivono: c’è bisogno anche di questo, nel deserto anestetizzato e disinformato che è l’Italia di oggi.