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Capelli Blu

Autore: Stefano Biolchini
Testata: Il Sole 24 Ore
Data: 25 novembre 2012

«Se tutto si può riassumere in venti minuti di telegiornale, vuol dire che quelli sono i problemi del mondo, e tutto il resto è negozi di scarpe e farmacie, o storie imbecilli che hanno perso la bussola». Che sia o meno un noir, non fatevi ingannare da Capelli blu. Il romanzo d’esordio di Valerio Nardoni non appartiene al genere delle “storie imbecilli” di cui parla il protagonista Jilium. Anzi. Scritto, ma anche sceneggiato, alternativamente secondo il punto di vista del protagonista e di un narratore-registra, questo libro gioca al gatto col topo con il lettore, mettendolo in guardia, disorientandolo e distruggendo alibi e credibilità dei personaggi (l’amico Alvaro è il più riuscito), financo disperdendo - fra sogno e realtà - le mille sfaccettature di una complessità che è impossibile ridurre a meno di non perdere la bussola. Poi c’è la trama, con Jilium, che sta per la versione scolastica e fin troppo scontata nel richiamo di Virgilio - laureato in storia dell’arte e cassiere per necessità, preso nella morsa del quotidiano - alle porte del Natale, per follia o anche solo inconsistenza - si porta in casa una quasi morta ammazzata che ha trovato distesa davanti all’uscio. È lei, ma il forse è sempre d’obbligo, ad avere i “capelli blu” del titolo. Ed è sempre lei a scomparire misteriosamente, lasciando sul divano in salotto borsa e cellulare. Da qui in poi mistero, sogno, realtà, psicosi e paradosso si confondono. A Jilium non resta che assistere come in un film allo svolgimento di una vita che al massimo consente, come a gran parte dei giovani d’oggi, il ruolo di spettatore. Ambientato in un luogo indefinito della provincia italiana, che potrebbe anche essere la Toscana del Nardoni traduttore livornese, questo libro si caratterizza per uno stile e una lingua dimessa, funzionale a un vero e proprio “montaggio registico” straniante, veloce e avvincente. Peccato solo per l’appesantimento della colonna sonora, dei “credit” e di tutti quei titoli di coda di cui - nel cliché da troppo tempo imperante - non si può non rilevare l’inutilità.