Il regalo di Christa Wolf al marito
Autore: Cinzia Fiori
Testata: Corriere della Sera
Data: 25 novembre 2012
C’è una grande morbidezza nella prosa che Christa Wolf dedica al marito. Come se la serenità nell’amore coniugale, estromessa dalle trame dei romanzi, potesse rientrare nel testo soltanto attraverso lo stile. «Cosa posso regalarti, mio caro, se non alcuni fogli scritti nei quali è confluita molta memoria del tempo in cui non ci conoscevamo ancora».
Quelle pagine, diventate un lungo racconto in terza persona, escono postume a un anno dalla scomparsa della scrittrice tedesca (1° dicembre 2011, era nata nel ’29). Con una scrittura misurata e immaginifica, fatta di visioni nette, precise, Christa Wolf racconta la storia di August, autista di pullman, al volante per un delle ultime corse prima della pensione. Passato e presente si avvicendano nella mente dell’uomo, August ricorda il bambino tisico arrivato orfano di guerra all’ospedale di Meclemburgo. Era da poco sceso da un treno bombardato, carico di prussiani in fuga come lui e la madre, che non avrebbe più rivisto.
Alla Rocca dei tarli, un castello trasformato in tubercolosario d’emergenza, si sono dispiegate le esperienze più importanti della sua vita: si è adattato al suo destino, ha convissuto con persone di diversa età, ha imparato a farsi strada, ha provato affetto, conosciuto la morte. Un bilancio esistenziale sereno, il suo, sorto dai primordi drammatici di un personaggio che Christa Wolf ci aveva già presentato, sia pur di sfuggita, nelle ultime pagine di Trama d’infanzia (1976). Era il bambino che scriveva lettere sgrammaticate alla protagonista, non la lasciava mai in pace. Dove andava lei, c’era anche lui. Quel trasporto ineludibile fatto di presenza ostinata, di attenzioni costanti e gelosie malcelate è stato un pilastro nell’esistenza di August. Per ciò, mentre viaggia, entra e esce dal tubercolosario con la memoria. Erano i primi mesi del 1945, tutto quello che doveva imparare per vivere è accaduto lì, compreso il sentimento per l’adolescente Lilo cui non sapeva dare il nome di amore, ma che è stato capace di colmare per sempre la voragine interiore della perdita dei genitori.
Poco importa se ancora adesso non sa formulare parole per quel che prova. Guidando, si gode grato la vista dei monti, ricorda Trude, la moglie morta, lascia spassionato che i passeggeri cantino, anche se preferisce il silenzio. L’intero racconto è riportato, la mancanza di dialoghi dà al testo un tono evocativo, niente brucia come allora, i fatti accaduti sono stati attraversati. Christa Wolf, maestra come sempre nel giostrare i tempi della narrazione, torna sui suoi temi: il nazismo, i conti con il Novecento, la malattia come rito di passaggio. Traccia, qui più che mai, mondi e personaggi nello spazio di una frase, cambia di continuo l’angolazione dell’enunciato prima che il lettore, avvinto, se ne accorga. Chissà se l’autrice aveva destinato alla pubblicazione le pagine regalate al marito per il sessantesimo anniversario. Certo è che con le scelte lessicali e il passo della narrazione, infonde una profonda pacatezza, mentre la sinuosità di alcuni periodi e il gioco delle virgole trasformano questo racconto perfetto in un abbraccio maturo.