Nardoni, il poeta che scriveva thriller anomali
Autore: Giuseppe de Marco
Testata: Giudizio Universale
Data: 15 novembre 2012
Un primo romanzo è, per definizione, un’opera acerba. Tutt’al più ricca di potenzialità, a volta latenti. In alcuni casi il potenziale si avverte con maggiore intensità. Qualche volta colpisce in modo inaspettato. Raramente, ti stende.
Stop. Siete arrivati.
Di Valerio Nardone, livornese classe 77, il lettore medio saprà poco. A meno che non sia un appassionato di poesia spagnola o un ammiratore del poeta Mario Luzi, di cui Nardoni è stato collaboratore. Sì perché il nostro, critico e traduttore, è anche, Dio lo perdoni, poeta. Anzi peggio, procacciatore di poeti, visto che ha fondato una casa editrice apposita e si è dato anche la pena di istituire un premio internazionale di poesia.
Cosa può spingere a leggere un’opera prima di un critico, traduttore e per giunta poeta? Difficile dirlo. Ma qualunque cosa sia, conviene non lasciarsela sfuggire. Sempre che non si voglia perdere l’occasione di gustarsi una piccola e piacevolissima sorpresa letteraria. Jilium, che nonostante la laurea in Storia dell’arte (o forse, ahilui, proprio per questo) di mestiere fa il cassiere in un discount, si imbatte una sera in una ragazza da capelli blu, stesa apparentemente senza vita proprio di fronte al portone di casa sua.
Da questo incipit di genere, si dipana pagina dopo pagina un intreccio frastornante. Seguiamo il protagonista mentre porta a casa il corpo della giovane donna; lo associa a quello di una ragazza conosciuta pochi giorni prima in un Megastore: capelli blu entrambe, impossibile sbagliare. E poi, in un crescendo di azioni irrazionali (ma sono vere o immaginate?) si finge il suo rapitore rispondendo ad un malavitoso che la cerca al telefonino; nasconde la borsa della ragazza e un gruzzolo sospetto di banconote spuntate dalla custodia degli occhiali. Della ragazza, ad ogni modo, il giorno dopo non c’è più traccia.
L’autore dà l’idea di essersi divertito a tessere abilmente una trama giallo/noir su un ordito onirico e a tratti surreale, dando vita ad un ricamo di gran lunga più complesso e articolato di quanto possa apparire ad una prima impressione. Che volendo (e non a caso, c’è da scommetterci) è un po’ quello che accade con la poesia. Dove le parole riescono sempre a nascondere una realtà multistrato, che pare lì a portata di mano e poi magari ti sfugge.
Così è anche per questo libro. Che è una riflessione straniante sull’io e sull’insostenibile precarietà dell’essere. Ma è anche un piccolo spaccato dell’oggi, dei giovani e di una società nella quale tutti sembrano navigare a vista. Come il protagonista del racconto, un “funambolo senza fune” che starebbe bene in un film di Fellini come in un libro di Dostoevskij. Oppure, volendo, è un giallo in piena regola, sebbene in realtà piuttosto fuori dalle regole.
Chiaro no? O forse no, per niente. Ma non importa. Perché come detto è forte il sospetto che proprio questa sia in fondo l’intenzione dell’autore. Suggerire dalle spalle, spargere indizi qua e là e mescolare il tutto in una narcotizzante cortina fumogena. Complice la memoria confusa e selettiva di Jilium, per cui quello che appare vero in una pagina viene smentito in quella successiva, ben presto ci si lascia coinvolgere in un labirinto dove quasi niente e nessuno sono quello che sembrano, e perfino l’io narrante passa con disinvoltura dalla prima alla terza persona.
Se ne esce con la sensazione di non sapere se si è appena fatto un sogno o un incubo. Vagamente felici e oscuramente inquieti. Non è già molto di più di quanto si possa chiedere ad un’opera prima?