Un rifugio dalla tempesta Il fascino della catastrofe L'esordio potente di Thad Ziolkowski con un romanzo che «insegue» le trombe d'aria in America e gli echi delle nuove canzoni di Dylan
Autore: Rock Reynolds
Testata: L'Unità
Data: 16 ottobre 2012
Temporale, bufera, tempesta, uragano, fortunale, ciclone, tifone, burrasca, nubifragio, diluvio. Si potrebbe andare avanti, oscillando tra freddi termini in uso tra i meteorologi e altri cari ai poeti. Quando i nembi si scatenano, la vita quotidiana subisce improvvise accelerazioni o fastidiosi stop e persino l'uomo comune trova linfa per la propria vena lirica. Gli Stati Uniti, si sa, non sono la nazione occidentale dagli afflati più poetici, eppure l'inglese imbastardito che vi si parla ha fatto ricorso a un numero davvero imprevedibile di nomi per designare un particolare tipo di rovescio. La distinzione primaria è quella classica tra semplice temporale (di intensità più o meno forte) e uragano, da una parte, e tromba d'aria, dall'altra. Qualcuno forse non ha mai sentito parlare di twister, ma di tornado certo sì. Però, anche il semplice temporale, l'americano storm, può avere sfumature diverse: rain-storm, thunder-storm, ice-storm, eccetera. Un po' come succede agli eschimesi quando devono indicare l'evidentemente multiforme concetto della neve, che designano in vari modi. Quando, dunque, mi è capitato tra le mani il romanzo Tempeste di Thad Ziolkowski (E/O, pagg 272, euro 19), lo spunto è stato irresistibile. Pazienza se il titolo originale era semplicemente Wichita (una cittadina del Kansas nota per essere la porta di ingresso della cosiddetta tornado alley, la via dei tornado). In fondo, Tempeste è la traduzione libera ma sensata. Oklahoma, Kansas, Missouri, Nebraska, Iowa e Illinois sono gli stati più flagellati dai tornado, senza alcun dubbio il fenomeno naturale di maggior violenza immediata. Il fronte del tornado è ridotto, ma la sua potenza distruttrice non ha eguali. E dire che il protagonista di Tempeste, Lewis, un neolaureato che torna a casa perché è stato scaricato dalla fidanzata e perché vuol sfuggire a un padre accademico pedante ed esigente, si ritrova nella zona più colpita da questo fenomeno meteorologico proprio quando la madre, una specie di hippy fuori di testa, si mette a seguire le orme dei pazzi che inseguono le trombe d'aria per far salire l'adrenalina a mille, per studiarle o fotografarle. Ce n'è un po' per tutti i gusti, soprattutto per chi ama una certa provincia americana sempre sorprendente e un po' scentrata. A tratti, mattacchiona. Ma perché la violenza dei nembi, oltre che la loro forza vitale, è così presente nella testa degli americani? Forse perché in quest'enorme paese ogni cosa, compresi i fenomeni meteorologici, pare amplificata all'ennesima potenza. Quando si pensa all'America, tutto ciò che ci viene in mente è grande, più grande. È più grande il cielo e più grandi, anzi gigantesche, sono le nubi. Un temporale non può quindi che assumere proporzioni cataclismatiche. Ovviamente, non è sempre così, ma si tratta di suggestioni che tirano letteralmente la volata alla creatività. Altrimenti non si spiegherebbe la forza dirompente di certe descrizioni della natura a opera di autori come Herman Melville o Henry David Thoreau. IMMAGINARIO D'OLTRE OCEANO D'altro canto, se uno scrittore come Joe R. Lansdale, nei cui romanzi una tempesta tropicale o una tromba d'aria non mancano mai e che, addirittura, ha scritto un libro intero sull'argomento, sotto l'eloquente titolo italiano de L'anno dell'uragano, si scomoda regolarmente per esorcizzare lo spettro della tempesta, nell'immaginario americano deve davvero essere sinonimo di catastrofe, di punizione divina. Perché il sentore della nemesi divina devono averlo avuto i sopravvissuti del terribile uragano che nel 1905 rase completamente al suolo Galveston, in Texas, una delle tre città più grandi degli Stati Uniti, che da allora non si sarebbe mai ripresa del tutto. Inutile, in questa sede, fare ricorso a immagini bibliche, peraltro molto frequenti nella narrativa della provincia americana e persino in tante canzoni popolari, ma brani come Like a hurricane di Neil Young e Stormy weather, un classico noto soprattutto nella versione di Billie Holiday, sono sì canzoni d'amore, ma richiamano alla mente la forza devastante dei nembi. Robert Allen Zimmerman, noto ai più come Bob Dylan, di immagini e addirittura citazioni quasi letterali della Bibbia ha quasi abusato, peraltro inserendole all'interno della sua poetica con la genialità che lo ha sempre contraddistinto, senza soluzione di continuità. Titoli come The day of the locusts (Il giorno delle locuste) o When the ship comes in (Quando la barca rientra in porto) lo testimonieranno sempre. Ma che dire della sua ultima prova discografica? Si intitola semplicemente Tempest ed è, almeno nelle intenzioni dell'autore, un cocktail di emozioni forti. Non dimentichiamo che Dylan proviene da Duluth, una cittadina a terrazza sullo sterminato lago Huron, e che in seguito si trasferì con la famiglia a Hibbing, un paesino minerario sperduto nel cuore Minnesota. LA NATURA IN Chronicles. Vol. 1 A chi non abbia ancora avuto l'occasione di leggere Chronicles. Vol. 1, quello che, almeno a giudicare dal titolo sarebbe dovuto essere il primo capitolo di una sterminata autobiografia, consiglio caldamente di farlo subito e di apprezzare la forza delle descrizioni naturalistiche: le pagine in cui Dylan si abbandona ai ricordi della giovinezza, ai suoni attutiti dei richiami antinebbia dei battelli lacustri, carichi di chissà quali sogni e misteri, sono da manuale, più che da diario. E, come spesso succede, Dylan si diverte a rimescolare le carte e a giocare a rimpiattino con i suoi fan, che si aspettano qualcosa che sono certi arriverà, stando ai segnali anticipatori, e che quasi mai viene concesso. Se non è geniale inserire nel titolo di un libro la dicitura Volume 1, sapendo fin dal principio che non ci saranno un 2 e nemmeno un 3%% Ecco, dunque, che Tempest può nuovamente spiazzare chi si attendeva un disco di neo-folk tanto in voga ai giorni nostri, una nuova raccolta di brani rock di protesta, un Dylan intimista o, al contrario, un working-class hero. Tempest si apre con Duquesne Whistle, un brano che, fin dal primo ascolto, vi troverà a picchiare il piedino. Magari vi imbarazzerà pure un po' doverlo ammettere, ma l'andiamo swing, tanto caro al Dylan targato nuovo millennio, qui la fa da padrone. Chi si aspetta un capolavoro, dovrà ancora una volta andare a rispolverare Blood on the tracks oppure Bringing it all back home, ma siamo una spanna buona sopra certe porcherie che il cantastorie dalla chioma più arruffata della storia ha tentato di propinarci a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta. Il sound, soprattutto, dimostra ancora una volta che Dylan ha finalmente le idee chiare. Certo, le ultime tre canzoni, tra cui la title-track Tempest, mettono a dura prova gli orecchi e la pazienza dell'ascoltatore, totalizzando insieme una trentina di minuti. E meno male che non ci sono tante foto dell'autore, con quei baffetti da sparviero inguardabili, ma la voce secca, arrochita dagli anni che avanzano e da chissà quante sigarette, e ancor più impertinente del solito è un marchio di garanzia. D'altro canto, Dylan sa essere tempestoso e, in Tempest, ci riesce in più di una occasione. E, come lo si sente dire al pubblico giapponese in un bootleg di una ventina d'anni fa, presentando Masters of war: «Sto per cantarvi un pezzo del mio cosiddetto periodo di protesta. Sono ancora in quel periodo».