Vendetta. Violenza. Cattiveria. Potenza. Giustizia e Ingiustizia. Morte. Sangue. Disperazione. Viltà. Tradimento. Furia. Disillusione. Adrenalina. In due parole: Matteo Strukul. In tre: “La ballata di Mila”. Ovvero, un autentico cippo per la letteratura di genere. Un romanzo che ha sparigliato le carte, “La ballata di Mila” (puntata numero 1 dell’esperienza della collana SabotAge di E/O, edito l’anno passato). Che non ha proceduto per imitazione, che non si è contentato di restare nei confini, ma che ha cancellato ogni frontiera, abbattuto a sassate i check-in degli eserciti del convenzionale, sfondato i posti di blocco del conservatorismo letterario. Addirittura, dato vita ad una nuova galassia oscura del grande universo noir: lo sugarpulp. Per definizione (coniata dallo stesso Strukul in compartecipazione con Matteo Righetto, autore di “Savana Padana”) una “polpa narrativa adulterata con lo zucchero di barbabietola, con una gradazione saccarometria crescente che rende lo scrivere più alcoolico, più tossico, più anfetaminico”. Più concretamente, una ‘nordestizzazione’ dell’esperienza scrittoria di grandissimi come Joe Lansdale, Victor Gischler o Elmore Leonard.
“La ballata di Mila” è un distillato puro di rabbia. Che racconta una storia per narrare la Storia, miscelando finzione e realtà, romanzo e cronaca. E la Storia è quella del ricco Nordest, passato di terra alacre e laboriosa, landa contadina prestata all’industrializzazione coatta, ponte sospeso fra tradizione e progresso. Al secolo, terra di crisi, di sperimentazione feconda delle mafie, innestate oramai nei tessuti urbani come tralci di vite amara ad avvelenare i frutti del Moscato o del Tocai. Ma la storia è anche quella di Mila Zago, angelo sterminatrice impietoso, pistole e spade al posto delle ali, un’esperienza familiare drammatica al posto dell’aureola. Femmina di quella femminilità feroce, dreadlock rossi come richiamo al fuoco che arde nel suo petto abbondante, lussurioso e gambe lunghissime strette in pantaloni di latex. Abbandonata, bambina, dalla madre; costretta, ancora ragazzina, a vedere cadere sotto i colpi della mala veneta suo padre poliziotto e, nello stesso giorno, violentata dagli stessi assassini paterni; formata, giovane, dall’allenamento marziale del nonno militare sull’Altopiano dei Sette Comuni; messasi, donna, proprio al centro del terreno di scontro tra la mafia italiana di Rossano Pagnan e la setta dei Pugnali Parlanti, spietata gang affiliata alle triadi cinesi. Mossa dalla sete di vendetta, Mila li schiera l’uno contro l’altro. Cinesi contro Italiani. Conquistatori nuovi e vecchi. Fa da esca, da boccone. Li coinvolge e li sconvolge, li attira in tagliole mortali e spietate. Ordisce piani e calpesta vite. Passa su di loro come un trattore su una campo infangato. Nel vuoto della legge, impone le sue regole. Diventa giustizia, discriminante tra il bene e il male. Nei manuali di Mila non esiste assoluzione. La vendetta è il suo unico codice. Il castigo finale, per tutti, per Italiani e Cinesi, è solo la morte.
La dirompente rottura de “La ballata di Mila” è qui: nel superamento della pacificità del bene. Nella figura di Mila, c’è il senso di giustizia che si sporca le mani di sangue. Non c’è rassicurazione. Non c’è consolazione. Non c’è lieto fine. Non c’è l’intervento del poliziotto faccia d’angelo a sedare la rabbia e ridare istituzionalità al bisogno di giustizia. Anzi, agli occhi di ‘Red Dread’, lo Stato non è che un complice partecipe delle malefatte di farabutti alla Pagnan. Una struttura molliccia e arresa ai veri potenti. “La ballata di Mila”, in questo senso, è un romanzo profondamente e autenticamente politico, il chiodo arrugginito piantato nel palmo di una Repubblica crocifissa sul legno della corruzione, dell’affare, del potere. E Strukul è come un farmaco scaduto: non ha né tempo né voglia di curare il male blandendolo con proprietà medicinali miracolose. Sul foglietto illustrativo de “La ballata di Mila” non troverete rimedi per combattere corruzione e ingiustizia. Ma pura e nerissima letteratura composta con inchiostro sulfureo.
Letterariamente, invece, è un libro brutto sporco e cattivo. Lurido come il pavimento dell’inferno dopo un cda delle Cattive Anime, dopo il raduno universale di un milione di satanassi, dopo il sabba notturno di tutte le streghe del mondo, scritto in linguaggio che è come il vomito da sbornia di Lucifero. E che nessuno provi a pulire…