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Il desiderio di Lila e Lenù, amiche geniali

Autore: Bia Sarasini
Testata: Società delle Letterate
Data: 17 ottobre 2012

Cattura subito questa seconda puntata de L’amica geniale, la storia di Lila e Lelù, le due amiche cresciute a Napoli in un quartiere  dove non si vede il mare. Epopea scritta da Elena Ferrante, l’autrice che preferisce far parlare i suoi libri e non dice  nulla di sé, neppure il proprio vero nome.

Storia del nuovo cognome, questo il titolo, riprende esattamente lì dove si era interrotto il primo volume. Sull’inquadratura in primo piano, agghiacciante come se fosse una sequenza-chiave di un film di Hitchcock, delle scarpe che mai avrebbero dovuto essere calzate da Marcello Solara, il nemico di Lila. Le scarpe che Stefano Carracci, il giovane salumaio neo-marito della sedicenne Lila, aveva giurato di conservare come la cosa più preziosa. L’impegno d’amore che le aveva fatto pensare che lui era la scelta migliore.

Il tuffo nella vicenda è vertiginoso, è lo snodo del destino. Tra Lila, che ha scelto di diventare ricca, come si era ripromessa fin da piccola, con l’unica strada che le si presentava, il matrimonio precoce, e Lenù, che invece continua a studiare, mai ben sicura di avere fatto la scelta vincente.

Cattura talmente, questa pagina scritta, che non la si può lasciare. E non ci si accorge nemmeno, e lo dico con ammirazione profonda, di quel trucco portatore di felicità  – come quel «filo di felicità» che a un certo punto compare – buttato lì nelle prime pagine:  i quaderni che Lila a un certo punto consegna a Lenù, e che lei, dopo averli letti fino a impararli a memoria, a Pisa butta da un ponte nell’Arno. Così chi scrive la storia, cioè la stessa Lenù, può raccontare dall’interno l’amica amata e odiata. E, come non succede nei feuilleton da cui sono stati rubati di peso, quegli stessi quaderni le permettono riflessioni ricorrenti su sé stessa, la sua amica, il loro rapporto.

Non è facile la vita delle due ragazze, che si fanno strada nella vita nei “favolosi” anni sessanta, costrette a fare i conti con il dominio maschile – brutale, anche quando si vuole amoroso – con le limitate possibilità di autonomia per una donna. Non si potrebbe vedere Lila, sposa sedicenne, come un’eco della casalinga inquieta dei suburbia americana che abita le pagine della Mistica della femminilità di Betty Friedan, all’incirca in quegli anni? Troppo intelligente, troppo “desiderante” rispetto alla vita banale e soprattutto umiliata che le si apre davanti?

Perché questa è la voce profonda del romanzo, insieme realistico e concettuale, romanzesco nel succedersi dei colpi di scena fino a percorrere le tracce di un fotoromanzo o una soap-opera, eppure sofisticato, quasi sperimentale negli innesti di soggettività pensante, di punti di vista che stravolgono i contesti e cambiano quello che si credeva di conoscere già.

La voce della ricerca delle origini intime, del tutto interiori, di un desiderio profondo che cambia la vita, non accetta i limiti delle regole date: «Non possedevo quella potenza emotiva che aveva spinto Lila a fare di tutto per godersi quella giornata e quella nottata. Restavo indietro, in attesa. Lei invece si prendeva le cose, le voleva davvero…». Cosa vuole una donna? È la forza del desiderio, che Lila e Lenù si scambiano, si rubano, si restituiscono in un gioco continuo di rimandi, rispecchiamenti, protese entrambe a costruirsi una vita a loro misura, una misura tutta da inventare.

Il merito, la forza della narrazione è in una scrittura unica, che taglia e illumina senza esitazioni: «…era bello solo vedersi ogni tanto per sentire il suono folle del cervello dell’una echeggiare dentro il suono folle del cervello dell’altra».

Si ricorderà che nel primo volume Lila è scomparsa, a sessantasei anni. In questa seconda parte la narrazione copre più o meno dieci anni, fino ai venticinque circa delle ragazze. Riuscirà il prossimo volume a chiudere la storia? Sarebbe bello pensare di no.