Il branco: un clan poliziesco composto da una ventina di elementi. Sei quelli più fidati, gli altri non meno agguerriti nel controllare il territorio e tenere sotto scacco la criminalità con metodi tutt’altro che ortodossi. Al vertice dell’organizzazione Biagio Mazzeo, ispettore della Sezione Narcotici, uomo divorato dall’avidità, feroce e senza scrupoli. È lui il capobranco, il patriarca di una famiglia che usa l’autorità poliziesca per dettare legge in città. Forgiato dalla strada, Mazzeo esercita il potere con forme tanto sommarie quanto efficaci: i superiori non possono fare a meno di lui e lui ne approfitta senza mezze misure. Ma uno scherzo del destino lo mette di fronte all’avversario sbagliato: Sergej Ivankov, ex guerrigliero ceceno soprannominato “il Lupo”, divenuto boss mafioso di altissimo profilo. Una rapina commissionata da Mazzeo tramutatasi in carneficina, il fratello di Sergej ucciso in uno scontro a fuoco non preventivato, la vendetta che incombe: sul branco sta per scatenarsi la tempesta.
“L’ispettore della Sezione Narcotici Biagio Mazzeo era quasi una leggenda in città. Era un poliziotto violento e corrotto che aveva preso in mano tutto il traffico e il commercio di droga, dettando legge sulla divisione del territorio”: è così che Piergiorgio Pulixi, classe 1982, introduce il protagonista del suo poderoso romanzo. Poderoso non soltanto per le quasi quattrocentocinquanta pagine, ma soprattutto per la robustezza architettonica. Un’intelaiatura drammatica di rimarchevole ampiezza e affidabilità in grado di accogliere dozzine di personaggi debitamente caratterizzati e altrettante microstorie che, distribuite tra passato e presente, dialogano limpidamente tra loro senza compromettere neanche per un istante la chiarezza del dettato narrativo.
L’idea più felice del romanzo, una saga dai risvolti tragici che ripropone l’antica lotta tra ordine e disordine, risiede nella trasfigurazione della città: pur descritta dettagliatamente e attraversata in lungo e largo dal branco, la metropoli di Una brutta storia non solo non è mai nominata esplicitamente, ma è una sorta di distillato di una qualsiasi grande città dell’Italia settentrionale. Inevitabile pensare a Milano, ma altrettanto impossibile fissare geograficamente questo tessuto urbano che non offre punti di riferimento riconoscibili: la rassicurante mappa dei luoghi noti (centro storico, edifici tipici, monumenti emblematici) è rimpiazzata da una topografia anonima e alienante (locali notturni, capannoni isolati, zone industriali). Una deterritorializzazione che, complice la notte, incrementa la tensione latente e accresce il portato allegorico delle vicende raccontate, la loro potenziale trasferibilità spaziale.
Allievo di Massimo Carlotto e membro del collettivo di scrittura Sabot, Pulixi gioca con le rime interne, naturalmente. Ne ha bisogno per necessitare l’articolazione narrativa e tenere in pugno il lettore. Simmetrie come l’assoluta specularità tra i due antagonisti del libro: Sergej Ivankov, al pari di Biagio Mazzeo, pone l’incolumità della famiglia sopra ogni altra cosa: “Nessuno doveva azzardarsi a toccare la sua famiglia. Nessuno”. Sia per Mazzeo che per Ivankov, inoltre, gli affetti rappresentano un’arma a doppio taglio: ammorbidiscono e rendono vulnerabili. Più in generale, tutti i personaggi principali sono diventati quello che sono a causa di violenti traumi familiari: in questo comune denominatore s’indovina l’impossibilità di liberarsi dai condizionamenti che il contesto, il passato e il caso (nella doppia accezione di casualità e destino) esercitano su di loro. E, per non allentare il ritmo, Pulixi ricorre alla giustapposizione di blocchi di racconto sostanzialmente simultanei, in un procedimento narrativo mutuato dal montaggio alternato di matrice cinematografica.
Aperta da un breve prologo e divisa in tre macrosezioni, la saga di Pulixi affida alla prima parte la presentazione dei personaggi e la gestione degli affari. La seconda porta alla ribalta gli affetti: è qui che s’impone il procedimento sospensivo tra linee di racconto in continua alternanza. Gli affondi intimi non indeboliscono il taglio realistico del racconto, che continua a dispensare squarci di meticolosa attenzione ai particolari (come le modalità di occultamento della cocaina nei camion serbi). Il montaggio alternato raggiunge infine il parossismo nella terza parte, consacrata allo showdown, avvolgendo i fili del racconto con ritmo sempre più concitato e aggiungendovi puntualmente l’interruzione delle sequenze narrative nel momento culminante. Espediente di derivazione televisiva altrimenti noto come cliffhanger che, unito al sapiente uso delle convenzioni narrative, rende Una brutta storia, secondo chi scrive, un poderoso, palpitante e rabbioso serial poliziesco su carta.