Il libro di Piergiorgio Pulixi è un mondo. Un’impresa narrativa dal respiro ampio di certa letteratura russa. L’universo creato dal giovane autore è però un inclemente ritratto del male che ci circonda e il tratteggio del labile confine che lo divide dal bene, da quello che normalmente consideriamo giusto. “Una brutta storia” è il racconto dovizioso ed epico della corruzione, dei vizi morbosi del nostro tempo e del nostro paese.
Nel tuo libro costruisci un mondo così dettagliato e popolato che nelle prime pagine fornisci una guida ai personaggi. Hai pensato fin dall’inizio a uno scenario così ricco?
Sì, da quando ho deciso di affrontare questa storia sapevo che sarebbe stato un noir atipico, volevo dargli un taglio epico con echi di tragedia, e per fare questo avevo bisogno di tanti personaggi, forti, risoluti e ben tratteggiati. Volevo inoltre dare ampio respiro alla storia, inserendo temi universali al suo interno come odio, amore, vendetta, perdizione e redenzione, fratellanza e ambizione. Per eviscerare questi temi avevo bisogno di una storia sontuosa, che mettesse in scena le dinamiche che si vengono a creare tra i personaggi, soprattutto fra gli appartenenti alla “famiglia” di poliziotti che nascondono tanti segreti.
La storia al centro del libro è più che mai attuale, segno che è la cronaca, la realtà, uno degli stimoli che porta verso la scrittura. Da dove nasce l’idea del branco?
Nasce dalla lettura di un articolo di un arresto particolare: sedici poliziotti, tutti insieme e con lo stesso capo di imputazione: associazione a delinquere. Un’intera Sezione si potrebbe dire. Erano in “affari” da parecchi anni. Questo è stato l’innesco del romanzo. Da lì mi sono documentato sul problema della corruzione nelle forze di polizia, e successivamente ho capito che potevo romanzare il fenomeno partendo da “un branco” di poliziotti, andando a descrivere però anche la loro vita familiare, rapportando la loro vita più privata con la guerra al narcotraffico che li vede recitare in più ruoli, spesso antitetici tra loro. Mi ha sempre colpito lo spirito di fratellanza e solidarietà che esiste tra colleghi all’interno delle forze dell’ordine; spesso si vengono a formare delle famiglie non biologiche ma forse ancora più unite di quelle di sangue; mi piaceva parlare di questo tipo di realtà, di clan di poliziotti, e di come a volte anche le famiglie più unite non riescono a resistere alle pressioni di segreti e menzogne che si celano al loro interno.
Nel libro ci sono famiglie, affiliazioni, razze. Come vedi il concetto di “legame”?
Per me è un concetto fondamentale e, ripeto, molto affascinante da esplorare. Ogni persona cerca un suo equilibrio, cerca dei punti di riferimento, dei punti fermi, delle costanti nella sua vita che è di per sé caotica; le persone che invece costituiscono il nostro nucleo più intimo e “fidato” rappresentano i nostri appigli in un vento costante, violento e caotico che cerca sempre di sradicarci, di divellere le nostre sicurezze. E’, è sempre stato e credo che sarà sempre così: l’essere umano cerca la sicurezza e la trova quasi sempre in una famiglia o in un cerchio di amicizie; questi microcosmi danno sicurezza. Il microcosmo che vado a descrivere in “Una brutta storia” è sicuramente più particolare perché è composto solo da poliziotti, corrotti tra l’altro. Quindi ha delle dinamiche antitetiche dove la violenza va a braccetto con l’onore e lo spirito di branco, dove l’amore e la sicurezza vanno salvaguardati a qualsiasi costo. Mi interessava vedere come questi sbirri che hanno il sogno di una famiglia perfetta in realtà non possono salvaguardare questo nucleo, questo clan, per via del loro lavoro, delle scelte che hanno fatto e per via dei troppi e oscuri segreti che ognuno di loro nasconde.
Leggendo si scopre che alla fine i cattivi hanno un cuore, a un certo punto si perde il confine tra bene e male, tutti sembrano cattivi ma anche vittime. Tutti hanno un dolore. Cosa ne pensi?
Io penso che gli esseri umani siano davvero complessi nelle loro infinite sfaccettature e nelle loro innumerevoli diversità. Se aggiungi che ogni persona è un’isola, un soggetto diverso da qualsiasi altro, ogni essere umano diventa un mistero, un rebus affascinante. Le persone malvagie sono ancora più intriganti, perché rappresentano un tipo particolare di “diversità” molto più rara e spigolosa. Spesso sono il risultato delle loro scelte sbagliate o dei brutti tiri che la vita ha giocato loro, però sono convinto che rimangono comunque delle persone in grado di provare sentimenti ed emozioni, sarebbe stupido ritenerli delle bestie tout court, questo fatto salvo qualsiasi giudizio sui loro comportamenti criminali, è chiaro. E’ la “teoria della crepa” di Maigret, se vogliamo; quel particolare momento in cui il criminale si manifesta per ciò che è veramente – un essere umano – e non per quello che è usualmente o vuol far credere di essere, un criminale per l’appunto. A me interessava approfondire quei momenti di debolezza, quei momenti in cui la maschera cade, dove il carnefice si scopre anche vittima, e dove il cattivo prova sentimenti nobili, pur rimanendo cattivo, sia chiaro. Non credo nei personaggi totalmente buoni o totalmente cattivi. Tutti noi abbiamo dei codici morali vacillanti, chi più chi meno, e nessuno può dire a mio avviso di avere una sola “maschera”. Il mio intento era mostrare più maschere possibili di uno stesso soggetto.
Ci parli del collettivo Sabot?
E’ stato creato dal maestro del noir italiano Massimo Carlotto che crede fermamente nella condivisione del sapere e ha voluto “formare” alcuni giovani autori attraverso un lungo percorso di formazione e iniziazione al noir, non solo a livello teorico ma anche pratico con un progetto narrativo molto impegnativo ma ricchissimo di soddisfazioni che è iniziato col romanzo “Perdas de Fogu”, ed è poi continuato con pubblicazioni collettive e dei singoli autori. Il nostro percorso di formazione continua, e ci vede coinvolti in dibattiti e studi sul noir, e sulle sue trasformazioni, così come su alcuni aspetti legati al giornalismo investigativo che sta alla base del noir mediterraneo, il genere di cui Carlotto è il massimo esponente. I Sabot inoltre lavorano tantissimo sulla creazione e la meccanica delle trame; riteniamo che sia fondamentale trovare storie interessanti ma che abbiamo degli snodi, delle evoluzioni narrative originali e non già viste: per questo l’officina letteraria Sabot lavora molto sulla meccanica delle trame, per arrivare a dei prodotti narrativi di spessore.
Quale ruolo ha oggi secondo te la scrittura? E in particolare questo genere di scrittura?
Penso che dato che alcune notizie vengono totalmente snobbate dai media, e che il sistema dell’informazione italiano abbia qualcosa di guasto, soprattutto ai vertici, sia necessario cercare di unire un tipo di narrativa di evasione con dei messaggi forti legati alla nostra realtà. Il noir ha sempre avuto una componente eversiva, critica verso la società, verso i suoi “mostri” che spesso auto genera. Viviamo in un Paese che fa di tutto per alimentare le nostre paure e per asservirci. Unire il romanzo alla cronaca e cercare di denunciare attraverso la fiction alcune storie negate sia prima di tutto interessante, ma anche propulsivo per un cambiamento che può partire dai libri. Alcuni scrittori hanno coniugato questi due aspetti magistralmente. Per esempio Dashell Hammett, Stieg Larsson, Jean Claude Izzo, Don Winslow, Carlotto, Lucarelli e tanti altri. Ritengo che sia una “battaglia” degna di essere combattuta.