Riposi la parola "io"
Autore: Andrea Tarabbia
Testata: L'Indice dei Libri del Mese
Data: 17 giugno 2012
Otto anni separano la pubblicazione L'unico scrittore buono è quello morto dal precedente romanzo di Marco Rossari: Invano veritas, anch'esso uscito per e/o è infatti del 2004. Nel mezzo, Rossari ha messo in circolazione per Fernandel le "canzoni sconce e malinconiche" di L'amore in bocca (2007) per poi inanellare una sequenza impressionante, per numero e qualità, di traduzioni dall'inglese e dall'americano: ma niente narrativa. Otto anni, per uno scrittore che non ne ha ancora quaranta, sono una piccola eternità: questo intervallo, che Rossari ha vissuto muovendosi nei meandri del mondo editoriale e scrivendo, è servito per elaborare un'opera ibrida, divertente, piena di illuminazioni e paradossi e pervasa da un tono, come forse direbbe l'autore, malincomico.
Ne viene che L'unico scrittore buono è quello morto è un libro di difficile catalogazione: è all'apparenza una raccolta di racconti, ognuno dedicato a uno scrittore o a una filosofia editoriale (lo scrittore che scrive, l'editor, il rapporto con i lettori - nello specifico una lettrice-groupie - lo scrittore che cerca disperatamente di farsi pubblicare e così via); ogni pezzo è legato a tutti gli altri dal tema generale della scrittura e, strutturalmente, da una serie di aforismi, brevi prose fulminanti, intuizioni comiche, definizioni delle varie tipologie e dei vari tic di chi lavora con la penna che sono un ponte tra un racconto e l'altro e funzionano come ulteriori declinazioni del discorso.
Tutto questo fa del libro qualcosa di più di una semplice raccolta: si tratta infatti di compendio del mondo della letteratura e dell'editoria e, al tempo stesso e in filigrana, di un'opera di autofiction dove l'autore, benché non nomini mai se stesso, mette a nudo il proprio percorso artistico, rivela quali sono i propri padri e, in ultima analisi, racconta gli otto anni in cui è stato in silenzio.
Dio e le carote, il divertentissimo racconto che apre il libro, funziona in questo senso come un introibo che veicola gran parte del discorso sviluppato in seguito: l'io narrante mette se stesso davanti a Dio nel giorno del giudizio e alla fatidica domanda "perché scrivi?" risponde mentendo e occultano il vero motivo della sua scelta di vita: la disperazione. Ed è proprio il rincorrersi di disperazioni e idiosincrasie – sempre riportate con toni leggeri - che costituisce il nervo dell'Unico scrittore.: da un Tolstoj totalmente fuori luogo in una trasmissione radiofonica dove il conduttore commenta, con il punto di vista del XXI secoli, la Sonata a Kreutzer, a un Joyce che non riesce a pubblicare neanche una riga e risponde ai continui rifiuti editoriali alzando ostinatamente il tiro e presentando opere sempre più complesse, stratificate e assolute; da uno Shakespeare messo a processo con l'accusa di plagio, a Dante che si vede rifiutare la Commedia da un editor che la vorrebbe scritta in latino e preferirebbe tagliare le parti in cui si fanno troppi "nomi altolocati".
Tutto è surreale, tutto brulica di situazioni improbabili: i grandi del passato vengono giudicati con l'occhio dell'editoria contemporanea e non passano l'esame. In parallelo, Rossari costruisce un percorso nella filiera, come si diceva: varie tipologie di scrittori inediti, di traduttori, di autori in fase di stallo si danno il cambio in una serie di prose della crisi: c'è lo scrittore che non scrive, il traduttore che traduce libri che sono più brutti di quelli che gli editori continuano a rifiutargli, c'è lo scrittore perfezionista che si ostina a rimaneggiare il suo testo e c'è quello che, per sbarcare il lunario, trova il lavoro più assurdo di cui mi sia capitato di leggere. C'è molto del Rossari uomo in queste figure, anche se naturalmente l'autofiction è mascherata dal suo grande sense of humour che tira ogni situazione allo spasimo. Da ultimo, Rossari trova il tempo di fre i conti con alcuni dei suoi padri: dal bizzarro racconto in cui uno scrittore va a visitare, in un lontano futuro, la città di Kafkania, a un'abiura dell'influenza beat, fino a una lucida e amara riflessione sul lascito culturale e politico degli anni di piombo.
Uno scrittore tace per otto anni e quando ricomincia a parlare lo fa con un libro in cui fa i conti con se stesso e con la sua grande ossessione: la scrittura. Perché si scrive? Per chi? Da chi? Ha ancora senso farlo? E, se sì, come lo si deve fare?
Le risposte arrivano in modo scanzonato, guascone: Rossari rimane comunque uno scrittore che ha nella penna la grande capacità di intrattenere. Ma il ritratto dell'essere umano che ha il tarlo della scrittura è amaro e, a ben guardare, il libro finisce laddove era cominciato: "Sono sceso per strada e l'ho tracciata a lettere cubitali. (...) Oggi (...) sono contento che da qualche parte, su un muro della mia città natale, riposi la parola 'io'".