L'uomo d'argento, un romanzo di Claudio Morici
Autore: Elena Paparelli
Testata: Mediaingioco
Data: 3 maggio 2012
«L'uomo d'argento» di Claudio Morici sembra essere, prima di tutto, un romanzo sull'adolescenza. Lo scenario apocalittico della crisi globale e del collasso della società occidentale è appena la premessa alla costruzione di un Eden capovolto come ultimo rifugio possibile, dove per approdare pare sufficiente essere muniti del prefisso «ex» (ex programmatori, ex architetti, ex banchieri ecc.), semplice passepartout per la sopravvivenza promessa.
Galleggiare fra birra, pompini (o pompini+birra), vomito e azzeramento di ogni progettualità è il diktat di questo nuovo limbo raccontato da Morici, costruito ad hoc da un manipolo di ragazzi dallo sguardo «lungimirante», che, si legge sul retrocopertina, «molti anni prima aveva deciso di isolarsi, intuendo prima degli altri come sarebbe andata».
E' qui, in questanuova metada tutti desiderata, teatro di un pellegrinaggio verso un radioso non-senso, che prende corpo la voce del protagonista senza nome del romanzo.
Un uomo-ragazzino inviato in una terra di tutti e di nessuno, zona franca e insieme campo di caccia (di sguardi di approvazione, di birre scroccate, di bacetti volanti, di disinvolte pacche sulle spalle ecc.) dove l'iniziazione al «fancazzismo» più spudorato ha bisogno però di un apposito apprendistato.
Gli «appenarrivati» - così si chiamato i nuovi adepti di un nuovo gioioso tirare a campare - possono finire infatti anche per essere rubricati come casi clinici da sottoporre a trattamento terapeutico, dal momento che disintossicarsi da una vita «normale» (fatta cioè di orari mattutini, stress, scadenze, minuscole soddisfazioni, un buon livello di conflitto ecc.) non è così semplice come potrebbe sembrare (una volta aperto il recinto in cui si è vissuti anni e anni, chi è che nonha affatto paura di uscire?).
Morici spariglia le carte e prova a mettere il romanzo di formazione sotto scacco: l'evoluzione possibile sembra lasciare spazio ad una goliardica presa per i fondelli di una comunità «giovane» caratterizzata da rigurgiti rivoluzionari infiacchiti dalla troppa retorica, dove poesie ad alto tasso di egocentrismo sentimentale si confondono con volantini del disordine costituito; dove l'andirivieni incalzante fra cazzeggio e finte relazioni si mescola al gusto di cocktail a ripetizione e markette; dove «non amare per sempre» si fa persino opzione possibile sulla strada verso il raggiungimento del perfetto mix benessere/divertimento. E dove chi non si allinea rischia comunque l'emarginazione.
In questo scenario che vira pagina dopo pagina verso il paradosso, prende forma la storia d'amore fra il protagonista e Jenny, una «appenarrivata», seppure «diversa».
E' qui che il romanzoesce dal facile gioco del ribaltamento di prospettiva per imboccare il sentiero scivoloso dell'introspezione, cominciando a dirci qualcosa di più di questo «adolescente» (non anagraficamente, o forse anche) alla conquista di una sua possibile identità. E' con divertita tenerezza che prendiamo così ad ascoltarne la voce nel suo vivere la difficoltà relazionale con l'altro sesso; nel suo maldestro sentirsi vittima dell'esuberanza e dell'instabilità femminile; nel suo bisogno disperato di accoglienza e, insieme, nel suo continuo tagliare la corda; nel suo andirivieni fra il sarcastico distacco dell'adulto e lo zelo romantico del ragazzo. Nel suo tentativo ossessivo di battere il «Maestro».
Il Maestro è appunto l'uomo d'argento che dà il titolo al romanzo.
Un uomo seduto su una panchina che sembra aver adottato l'assoluto immobilismo come insindacabile stile di vita.
Un individuo qualunqueche - nonostante sia pitturato d'argento - passerebbe anche inosservato, se non fosse che il protagonista ne ha fatto il riferimento imprescindibile della sua esistenza.
Sfidare il Maestro in un'inedita gara all'imperturbabilità, continuamente rilanciata, diventa così l'appuntamento fisso che puntella il percorso di ricerca-smarrimento e smarrimento-ricerca del nostro «eroe», a tu per tu con questa sorta di grande Padre Ameba, infrangibile quanto seducente. E gran pezzo di merda, come è giusto che sia, che non dà neppure la soddisfazione di una partita accettata, perchè per accettare una sfida occorre pur sempre aver stima dell'avversario.
Batterlo ha la dignità di un obiettivo esistenziale in piena regola: il conflitto drammatico con il non-ascolto personificato dall'uomo d'argento diventa così - grazie alla penna brillante di Morici - un siparietto persino a tratti comico, quasi fosse uno sketch pubblicitario che dà il ritmoad una narrazioneche è insieme anche storia sul disagio e sulla malattia.
Se c'è un padre senza sguardo, distante eppure vicinissimo, c'è anche una madre: è la città, «amica, amante, compagna di squadra, donna di servizio, genitore, tutto». A cui dichiarare «tutto l'amore che non dichiaravi agli esseri umani». Una madre «ideale» che ti asseconda in tutto e per tutto, che trova il modo comunque di proteggerti, che ti chiede fiducia, che ti invita al movimento quanto il Maestro ti seduce con la stasi.
Nell'oscillazione fra gli opposti, fra il Maestro-Padre e la Città-Madre, c'è tutta l'umanità di una «adolescenza» incerta. Quella da parodiare (e Morici è bravissimo) nella sua fragilità narcisistica, nel suo galateo amoroso da riscrivere ogni volta daccapo, nella sua aggressività senza troppa convinzione, nel suo sentire anestetizzato.
Il romanzo diventa molto bello lì dove esce dal gioco, lì dove la corazza del cinismo appenascalfita lascia sbirciare dentro. Attrazione e distanza, vuoto e pieno, prossimità e lontananza, intimità e freddezza: nella scorribanda fra gli estremi, il cambiamento sembra essere persino una prospettiva poco allettante, per gente «alla mano» che «voleva solo farsela prendere bene».
Eppure, i conflitti scorrono, e sono forti. Mentre una carezza a metà accenna appena la sua prossima rivoluzione.