Sì viaggiare, evitando illusioni
Autore: Alessandro Mazzarelli
Testata: Europa
Data: 3 maggio 2012
Claudio Morici, autore de L’Uomo d’argento (edizioni e/o, pag. 189, 16 euro), è a Roma per un breve soggiorno. Alle spalle (forse?) ormai il peregrinare tra Londra, Città del Messico, la Spagna, finito poi nel suo La terra vista dalla luna, che è stato un successo Bompiani un paio di anni fa. «Stavolta però starò di più – promette – resterò almeno otto mesi, tutti nella stessa casa a San Giovanni, questa volta mi stabilizzo».
Il tuo libro, come riportato in quarta di copertina, è stato scritto in almeno trenta città diverse. Viaggiare per te è un piacere, un’ossessione, un’urgenza o una modalità dello scrivere?
Viaggiare è stato uno stile di vita e un’ossessione. I pullman, gli incontri, i viaggi dentro i viaggi, i mercati, se chiudevo gli occhi li vedevo e allora dovevo muovermi. Poi mi è servito anche per scrivere, perché sono più libero all’estero: non devo rendere conto a nessuno e soprattutto posso spendere molto meno e quindi dedicare meno ore a guadagnarmi da vivere. In molti posti cambiano i prezzi, ma soprattutto le abitudini al consumo e le pressioni sociali. Se vivessi qui a Roma come ho vissuto in altri paesi, immagino che alcuni miei amici chiamerebbero l’ambulanza o qualcosa del genere.
Nel tuo ultimo romanzo, L’Uomo d’argento, racconti in maniera surreale un fenomeno esistente: il flusso costante di giovani europei, ma non solo europei, verso altri paesi, una comunità apolide che si incontra in città sempre diverse: Londra, Barcellona, New York, Berlino. È una città senza nome, l’ultima rimasta.
Credo di aver fatto parte, per un periodo, di questa comunità. Scrivendo però, sei sempre un po’ un imbroglione. Osservi con un distacco che non espliciti quasi mai, da agente segreto, e ti crei anche un alibi per non identificarti completamente. Molti di loro, poi, stavano sperimentando il non fare un cavolo dalla mattina alla sera. Si auto-guarivano dopo anni a sostenere uno stile di vita assurdo, è questo ciò che accomuna questo strano flusso d’emigrazione europeo. Anni a fare lavori che non gli piacevano, ore di straordinari gratis, stage infiniti, inseguendo qualcosa che non sarebbe mai arrivato, e pure se arrivava cos’era? Io, sia che fossi a Berlino, Granada, Lisbona o in viaggio in Asia o in Sudamerica, ero come loro solo dopo le 20.00. Mi svegliavo a mezzogiorno e il pomeriggio scomparivo in un bar o in biblioteca a scrivere. Sabato e domenica, compresi.
I tuoi personaggi vivono situazioni che ci fanno sorridere, e ridere, ma è un divertimento amaro quello del lettore, che non di rado si trasforma in un senso di pena.
Più che pena, credo compassione. Mi piacerebbe che i miei lettori provassero compassione. Faccio di tutto per questo, me la preparo 150 pagine prima, la carico come una molla per poi fartela arrivare in faccia, all’improvviso, la compassione. Ma inizia sempre tutto ridendo molto: apre i polmoni e abbassa le difese.
C’è, nel tuo romanzo, anche una critica ad una forma di edonismo spensierato, un edonismo in cui i problemi non si affrontano mai, si voltano semplicemente le spalle.
È un meccanismo che ti allontana dalle emozioni di un certo tipo, credo. Il gruppo di amici, nel romanzo, esercita una sorta di resistenza. Devono divertirsi e basta, costi quel che costi. Ma c’è sempre il dilemma se sia possibile andare avanti così, oppure no. Se ne vale la pena, poi. Se riesci ad accettarti nelle vesti di una lucertola che si sposta a seconda di come si sposta il sole. Cosa succede a un certo punto? Perché la gente scoppia anche nell’edonismo spensierato?
Due dei tuoi personaggi si dichiarano reciprocamente non innamorati, e si giurano non amore per sempre. Può essere la risposta per una vita di coppia felice?
Giurarsi di non amarsi per tutta la vita, potrebbe essere l’unico modo per coltivarlo, l’amore. È qualcosa che risuona molto alle persone della mia generazione. Parlo di quando si vive in un contesto culturale malaticcio che non ti dà altre possibilità. Insomma, meglio che entrare in questi pacchetti relazionali tutto compreso: scintilla, passione, scambio, conflitto, fine. Roba così.
Nel tuo romanzo aleggia una sorta di fine del mondo. Ritieni che quella occidentale sia una società in crisi, al tramonto?
Sì
Le radici culturali, territoriali, familiari, ci aiutano a vivere in maniera più consapevole oppure sono soltanto degli ostacoli e senza radici si vive meglio, più liberi?
Beh, a un certo punto, quando ti chiedi chi sei e cominci davvero a non avere risposte (e prima o poi capita a tutti), l’unica cosa che puoi fare è andare a frugare nelle tue radici. Non hai nient’altro. È un’esperienza fondamentale per le persone. Se ti distruggono le radici, nel senso che torni e non trovi più niente, subisci un danno devastante. Penso alla Cina, dove ho viaggiato ad ottobre. Hanno annientato sistematicamente il loro passato, hanno raso al suolo le testimonianze etniche di migliaia di popolazioni. La gente si guarda indietro e c’è il deserto, rimane completamente spiazzata, non sa più chi è, cosa deve fare. È stata un’operazione scientifica: se non sai più chi sei, non combatti più. Non ti ribelli. Per cosa dovresti farlo? In un attimo il tuo obiettivo nella vita diventa farti l’iPad.
Nel tuo ultimo romanzo, adotti un linguaggio molto colloquiale. È funzionale a questi personaggi, a questa storia, o lo rivendichi come un tuo stile? E perché hai scelto una tecnica narrativa che sembra togliere più che mettere, svuotare più che aggiungere?
Il linguaggio colloquiale è parte del mio stile e quindi il risultato di un lavoro, di una tecnica. Quando stavo a Berlino, avevo deciso di non buttare le pagine della bozza, che stampavo ogni volta per intervenire sul testo cartaceo. Avevo riempito la stanza di montagne di fogli, non si poteva più camminare. Vederli lì, era impressionante. Un libro è grande pochi centimetri, ma io nella mia testa lo vedo sempre come un hangar pieno di fogli. Scrivo, stampo, rileggo, correggo, ma soprattutto tolgo. Se taglio una frase o un capitolo e il racconto funziona lo stesso, significa che DEVO toglierlo. Tutto deve essere il più semplice possibile. La dimensione della complessità deve esplodere nel mondo intimo e personale del lettore, che se tutto va bene, non può fare a meno di proiettare in quello che legge.