Il romanzo di Elena Ferrante è strepitoso. Lo so che non si comincia mai una descrizione da un commento, meno che mai enfatico, lo insegnavano a scuola: si spiega com'è fatto l'oggetto, poi chi legge gli aggettivi li trova da solo. Se gli piace, se non gli piace e perché. Però per una volta, per questa volta mi sembra che per orientarsi nella sterminata galleria di titoli in uscita serva un dito che indichi senza paura: quello, fidatevi. La figlia oscura è un libro delicatissimo e sfacciato, preciso ed evanescente: fa male come un taglio, cura come un balsamo. È un pensiero che bussa senza trovare posto, va via, torna, bussa ancora, entra infine, si accomoda in quell'angolo buio in fondo alla stanza e lì resta fermo a guardarti. Come avrà fatto Elena Ferrante a scoprire il segreto? Lo sapeva già, da subito, lo ha cercato per anni? Come ha fatto a restituirlo in una forma narrativa così limpida? È così facile dunque, basta davvero scostare la tenda per trovarlo?
La storia, dunque. La trama - per quanto sia un pretesto utile solo a tenere insieme i pensieri che corrono - è così: una donna di quasi 48 anni, Leda, docente di letteratura inglese all'università, va in vacanza in una casetta in affitto sulla riviera jonica. È sola, separata dal marito docente di fisica in America, le due figlie ormai grandi sono col padre. In spiaggia incontra una famiglia di napoletani - un clan, per meglio dire - tra i quali spicca per estraneità (per bellezza, eleganza, discrezione) la giovane Nina con sua figlia Elena: giocano con una bambola in riva al mare. Leda in gioventù ha abbandonato le sue due figlie bambine: per tre anni è stata via da casa inseguendo qualcosa di sé. È tornata, poi. Le ha cresciute fino a che non sono state loro ad andarsene da lei. Nei pochi giorni al mare, nell'incontro con Nina e nelle 140 pagine che seguono, Leda ritrova sua madre e sua nonna, la sua bambola e le sue figlie, le ragioni della sua fuga: non si assolve, non si condanna. Non sa rispondere a molte domande nonostante tutti i suoi libri: non sa dire, più di tutto, cosa sia una buona madre e se lei sia stata davvero una "madre cattiva". Restituisce però con assoluta verità "l'imbarazzata meraviglia" di non provare dolore nella separazione dalle figlie, ritrova nell'assenza la "giusta velocità dei pensieri".
Racconta Marta e Bianca, le sue ragazze, con il distacco di chi è stato talmente vicino da saper stare lontano. "Sono tornata da loro per la stessa ragione per cui me ne ero andata", spiega a Nina, "non per amore loro ma per amor mio". Perché "mi sono sentita più inutile e disperata senza di loro che con loro". Basta un gesto minimo, un fatto occasionale certe volte a spingerti via: un'autostoppista di nome Brenda, per esempio. Una distinta signora dell'ombrellone accanto che può lasciarti le chiavi di casa per un pomeriggio d'amore: qualcuno che ti mostri cos'è quello che manca. Poi la vita gira in tondo e quasi sempre si frantuma. I desideri che sembravano imperativi si rivelano come quelli di un bambino nel negozio di giocattoli, che "non vuole mai solo quello che chiede, anzi. Una richiesta soddisfatta gli rende ancora più insopportabile la mancanza inconfessata". È Leda che ha rubato la bambola di Elena. Lei che la nasconde. È Leda la bambola. È buona? Cattiva? "Sono una madre snaturata", dice di sé quando mancano 50 righe alla fine. Ho pensato che a essere capace di scrivere una storia così mi sarei fermata lì. Avrei rinunciato all'ultima pagina. Ma anche questo è l'incanto del libro. Ci pensi, ci ripensi e dopo 10 giorni il segreto è ancora lì, immobile, che ti guarda dal suo angolo buio.