"Budapest 1956: la rivolta diventa un thriller,
recita la manchette con cui il libro
è venduto. Non gli fa un buon servizio. Prima
di tutto, il libro non è affatto un giallo ambientato allepoca della Rivoluzione Ungherese
come lindicazione farebbe pensare, ma
il racconto di colui che allepoca era questore
di Budapest. E poi la lettura è sì avvincente,
ma non certo perché vi si applichino i
meccanismi della suspence tipici della detective
o della spy story. Anzi, sappiamo già
dalle prime pagine come va a finire. Il coinvolgimento,
invece, viene dal pathos di una
vicenda umana e ideologica straordinaria.
Operaio tornitore, militante socialdemocratico,
rampollo di una umile famiglia di radici
calviniste che ha abbracciato con fervore
appunto calvinista la fede nella redenzione
del proletariato, Sándor Kopácsi è a soli 22
anni un eroe della Resistenza contro i tedeschi.
Combattente al fianco dellArmata Rossa
al momento della sua entrata in Ungheria,
passato dalla socialdemocrazia al Partito comunista,
il ragazzo fa una carriera sfolgorante
nel nuovo regime, pur profittando degli incarichi
di polizia che gli sono affidati per alleviare
in qualche modo il peso dei peggiori
abusi stalinisti. Responsabile appunto dellordine
pubblico nella capitale a soli 34 anni,
si trova allimprovviso di fronte allesplodere
della rabbia popolare. In principio non
arretra di fronte a quello che ritiene essere
il suo dovere, rischiando in prima persona la
vita per cercare di riportare lordine. Ma presto
si rende conto dellapprossimazione criminale
con cui il regime si è preparato per
una tale evenienza: Abbiamo quaranta fucili
compagno colonnello è appunto la frase
con cui un tenente al comando di 25 uomini
gli spiega come pensa di poter disperdere i
100.000 dimostranti che si sono raccolti per
abbattere la statua di Stalin.
E i dubbi sono
presto rafforzati dalla somiglianza che scorge
tra i ribelli e i ricordi del suo passato: sua
madre che da ragazzina sparava alle Guardie
Bianche; lui quindicenne con suo padre ad
azzuffarsi coi fascisti; lui e sua moglie partigiani
Insomma, quasi senza accorgersene
passa dalla parte della Rivoluzione. Non fa
però in tempo a guidare la resistenza popolare.
Arrestato a tradimento, affronterà lo
stesso processo di Nagy, Maléter e degli altri
leader dellottobre ungherese. Ma Kadar,
luomo che gli invasori hanno messo alla testa
della normalizzazione, gli deve riconoscenza,
per averlo difeso quando era in disgrazia.
Per il rotto della cuffia Kopácsi evita
dunque la forca, con lamnistia del 63 esce
anche dallergastolo, e dopo essere tornato a
fare il tornitore nel 1975 riesce infine a emigrare
in Canada, dove pure lavora da operaio.
In Canada questa storia è stata appunto
scritta, e pubblicata nelle due prime edizioni
italiane del 1979 e 1980 col titolo In nome
della classe operaia. Purtroppo, però, questa
riedizione, pur esibendo come postfazione
la stessa prefazione di Aldo Natoli del
1980, non aggiorna su quel che è avvenuto dopo.
Lo raccontiamo dunque noi, a interesse
del lettore. Pensionato a 65 anni nel 1987, nel
1989 Kopácsi è rimpatriato grazie alla transizione
democratica, è stato reintegrato nella
polizia e nel 1990 si è visto riconoscere il grado
di Maggior Generale. E anche tornato nel
ricostituito Partito socialdemocratico ungherese,
di cui è stato presidente fino alla morte,
nel 2001.