Dove ha imparato, Viola Di Grado a scrivere così? Forse ascoltando canzoni: le canzoni di Björk, la rockstar islandese che appare anche nelle pagine del libro. In ogni caso, complimenti: perché la giovanissima scrittrice italiana (ha appena 23 anni), che in realtà vive a Londra, dove studia filosofia cinese e giapponese, ha scritto un libro d'esordio noir e ritmato, che esce oggi, e ci stupisce ad ogni frase. Con un titolo che sembra l'etichetta di un maglione: "Settanta acrilico trenta lana" (e/o, pagg. 208, euro 16). La casa editrice scommette su di lei come su una nuova Amélie Nothomb; anzi, un'Amélie Nothomb italiana, a cominciare dal look un po' gothic, e post-punk (e i rossetti estremi, magari blu). Ma Viola non è prevedibile, va scoperta.
Come la sua protagonista, che porta come lei un nome floreale, però si comporta in modo decisamente poco floreale e soave: si chiama Camelia, ma non raccoglie fiori, bensì li decapita; abita in una casa assediata dalla muffa, traduce manuali di istruzioni per lavatrici, e soprattutto ripesca abiti dai cassonetti e li porta a casa; vive con una madre bellissima ma sconvolta da un lutto, che smette di parlare e fotografa ossessivamente buchi. Camelia è dentro un incubo di acrilico, come il titolo del libro, eppure scommette sull'amore: quello per un ragazzo cinese da cui va a prendere lezioni di ideogrammi...
Perché questo titolo, che sembra l'etichetta di un maglione?
«I maglioni settanta acrilico trenta lana non riscaldano abbastanza, non sono di qualità e spesso fanno sudare freddo. Camelia, la protagonista, da anni si sente così: dentro un eterno dodici dicembre. Nel romanzo c'è una dimensione ciclica di cose che ritornano: i vestiti buttati nel cassonetto tornano a essere indossati, i ricordi si ripresentano sempre a distruggere il presente, dicembre appena finisce ricomincia sempre daccapo, e Camelia scopre di rivivere le stesse esperienze di una ragazza misteriosamente scomparsa».
Anche lei, come Camelia, ripesca vecchi vestiti dai cassonetti, per sforbiciarli, reinventarli e indossarli?
«No, li ripesco solo dai mercatini. Adoro quelli di Londra, dove vivo: Notting Hill, Brick Lane, Camden Town. Mi piacciono i vestiti che hanno una pre-esistenza, i pizzi vittoriani e le spille antiche. Ma specialmente amo riconvertire materiali di ogni genere nei collage: contaminazioni di stoffe, vecchi scontrini e biglietti, bottoni, carte di biscotti...».
Moda come riciclo?
«Ho appena fatto una collana solo con oggetti raccolti per terra. Ieri ho curato una spilla rotta, appiccicandoci sopra un fiore di lana cotta trovato in metropolitana; sopra, un pupazzetto playmobil che viene dalla cantina di un amico. Il mio stilista preferito? Alexander McQueen».
Come Camelia, anche lei studia cinese. E il suo ideogramma preferito è...
«Il vuoto. Nella sua forma antica, rappresenta una balla di fieno con delle fiamme sotto. Perché il vuoto nella filosofia cinese non è una condizione, è lo stadio di un processo: le fiamme evocano l'azione che porta allo svuotamento».
A volte ci innamoriamo dei luoghi dove sono ambientati certi libri. Ma sinceramente, non della grigia e piovosa Leeds, lo scenario del suo romanzo. E dunque, il suo posto del cuore nel mondo, qual è?
«L'Islanda. Non ci sono mai stata, ma so che lì addestrano gli astronauti perché somiglia alla Luna. E visto che sulla Terra mi sono sempre sentita una turista...».
A proposito di Islanda: certi brani del suo romanzo hanno un ritmo forte, deciso, come canzoni. Dunque, se dovesse scegliere una colonna sonora, Björk?
«Sì, Björk e anche un po' di PJ Harvey, e ogni tanto un violoncello scordato che poi sparisce nel nulla».
Apra il suo guardaroba. Ha qualcosa nell'armadio a cui non rinuncerebbe mai?
«Il mio travestimento di Halloween da bambina assassina di ”The Ring”. È perfetto per spaventare la gente».
Inquietante, però, che lei, una ragazza che porta un nome di fiore (Viola), inventi una protagonista con un nome di fiore (Camelia), ma la immagini ghigliottinare fiori... Una vendetta?
«E c'è anche Lily, la ragazza che scompare misteriosamente. Volevo creare una triade simbolica: Camelia uccide i fiori; Lily (giglio) muore misteriosamente; io sono la Viola che si è divertita a mettere in scena questo folle genocidio di fiori e vestiti del mio romanzo, e per solidarietà mi sono anche messa in mezzo».
E... Trieste?
«Non ci sono mai stata!».
Allora questo auguriamo, a Viola Di Grado: di scoprire Trieste. C'è una cosa che forse le piacerà: la bora. Anche se non è il vento di Leeds, quello che descrive nel libro.