Storie e aneddoti sullego ipertrofico degli scrittori
Autore: Seia Montanelli
Testata: Corriere Nazionale
Data: 12 febbraio 2012
Dopo gli “Scrittori inutili” di Ermanno Cavazzoni (ristampato da Guanda nel 2010 ma uscito nel 2002 per Feltrinelli), a sferzare la categoria ci pensa ora Marco Rossari (scrittore e bravissimo traduttore) con “L’unico scrittore buono è quello morto” (E/O edizioni, pp. 192, € 16,50), un libro divertente e corrosivo in cui in testi più o meno brevi, si stigmatizzano tic, vanità e debolezze degli scrittori, tali o sedicenti che siano, e si costruisce intorno ad esse storie e aneddoti che strappano più di un sorriso amaro, soprattutto agli addetti ai lavori che più volte avranno già incontrato questo o quel tipo di autore nella loro carriera e volentieri gliene avrebbero dette quattro. Ma ci pensa Rossari per tutti, in queste ventidue storie, simili a apologhi, precedute da folgoranti epigrafi sui vari tipi di scrittori: «C’era uno scrittore che si credeva Proust. Era Proust» o «C’era uno scrittore che non appariva mai, eppure era un gigante», e da apodittiche dichiarazioni in prima persona intitolate “Parola di scrittore”, del tipo «Io non scrivo, io pubblico» o «Io non scrivo, io vivo» o ovviamente «Io non vivo, io scrivo». Molte delle storielle raccontate sembreranno riferirsi velatamente a questo o quell’autore contemporaneo, alcune invece hanno come protagonisti proprio scrittori famosi alle prese con i loro fantasmi: William Shakespeare condannato per plagio, James Joyce alle prese con editor che non lo capiscono, Dante rifiutato per via dei troppi riferimenti a persone note nel suo “poema”. E poi Franz Kafka più kafkiano che mai. Ma non ci sono solo prese in giro e acute variazioni sul tema dell’ego ipertrofico degli scrittori in questo libro. Rossari passa in rassegna il sistema editoriale e ci riflette su: così la storia di Joyce parla del lavoro degli editor, a volte deleterio per i libri, ma anche dell’ambizione degli scrittori, pronti ad andare sempre oltre se stessi; in un brano che vede protagonista Tolstoj alle prese con una trasmissione radiofonica, si parla sia della superficialità di molti critici di professione, sia del rapporto tra autore e lettore, in un mondo in cui le distanze si accorciano sempre di più e tutti si sentono in dover di dire la propria.